martedì 24 ottobre 2017

Ab urbe condita: storia e miti della fondazione di Roma

B. Pinelli, Romolo coll’aratro, Roma, XIX secolo

Chiunque abbia avuto modo di studiare le leggende fondative di Roma non ha potuto fare a meno di constatare quanto esse siano macchinose, farraginose, e, tutto sommato, incoerenti. Perché la Città Eterna potesse vedere la luce si sarebbero dovuti scomodare ben tre eroi: il troiano Enea, profugo dall'oriente alla ricerca di un nuovo inizio; suo figlio Iulo, prosecutore dell'opera del padre; e dopo diversi secoli, Romolo, ultimo discendente del seme di Ilio. Senza contare le figure secondarie che comparteciparono all'impresa: il re Latino, Turno, Amulio, Numitore, rea Silvia, il dio Marte, Remo e la lupa, solo per citarne alcuni. Per Roma, Troia doveva bruciare, la regina di Cartagine doveva essere sedotta e abbandonata (di qui l'odio eterno tra Cartaginesi e Romani), una guerra doveva insanguinare la terra del Lazio, e Lavinio e Albalonga dovevano essere fondate. Roma: una città che, ai suoi esordi ospitò ogni sorta di delinquente, perseguitato, ricercato, esiliato dalle patrie più disparate ed, almeno all'apparenza, molto più onorevoli. Una città alla quale le donne non osavano avvicinarsi (da cui il famoso ratto delle Sabine).
I Romani fecero ogni sforzo possibile per trasformare questa accozzaglia di storie in una narrazione coerente, citando nomi, ricostruendo genealogie, aggiustando cronologie, ma le perplessità del moderno studioso rimangono. E forse la realtà è semplice: i Romani venivano semplicemente dal nulla. Un nulla fatto di capanne circolari di paglia e fango, un nulla fatto di buoi, di pecore e di miseria. Da quel nulla si sarebbe originato tutto: un tutto che ieri come oggi, in qualche modo, ci sforziamo di comprendere e spiegare...

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