martedì 26 febbraio 2019

10 - Il duro colpo della peste: squilibri, proteste e insidie



Da trecento anni la consistenza demografica dell'Europa andava aumentando, ad un ritmo di crescita non fulminante, ma continuo. L'incremento della popolazione aveva consentito la specializzazione dei mestieri e aveva sostenuto la nascita di una civiltà complessa, raffinata dal punto di vista culturale e relativamente ricca sul piano economico. La pietra angolare su cui questa costruzione era stata edificata continuava ad essere l'agricoltura. Dopo i progressi successivi all'anno Mille, tuttavia, le tecniche agricole non avevano visto innovazioni significative; solo l'estensione delle aree messe a coltura aveva garantito una produzione sufficiente a sfamare la crescente massa di persone. In tempi normali le annate cattive non si traducevano immediatamente in una carestia: i governi provvedevano a stoccare scorte alimentari e, in caso di loro esaurimento, si premuravano di acquistare cereali da luoghi sufficientemente lontani da non aver risentito dello scarso raccolto. La situazione comincia a farsi seria quando l'ampiezza delle aree interessate da un rendimento agricolo insufficiente si allargano a dismisura: a quel punto cercare di acquistare altrove diventa impossibile.
Ma perché la terra cessa all'improvviso di produrre abbastanza di che vivere? La risposta a questa domanda è cruciale per capire quell'imponente fenomeno di ristrutturazione economica che generalmente va sotto il nome di "crisi del Trecento". Premesso che la storiografia non ha ancora scritto l'ultima parola su questo tema, si è cercato di rispondere in vari modi.
In primo luogo sembra ormai acclarato che qualcosa cambia nel clima, proprio a partire dai primi anni del XIV secolo. Sta per cominciare la piccola èra glaciale, che si prolungherà fino a tutto il '600, con temperature medie annuali nettamente più basse rispetto ai secoli immediatamente successivi all'anno Mille. Il Reno, il Tamigi, la Senna congelano regolarmente durante l'inverno e diventano percorribili non solo a piedi, ma addirittura in carrozza. Sappiamo inoltre che all'inizio del '300 si succedono estati fredde e piovose, al punto che il grano non arriva a maturazione e marcisce ancora in pianta.
Ad aggravare la situazione delle campagne si somma la guerra: il Trecento è un secolo in cui i conflitti si moltiplicano, portando con sé la devastazione dei terreni coltivati. Si pensi soltanto alla guerra dei Cent'anni, scoppiata tra la Francia e l'Inghilterra nel 1337 e che si prolunga fino al 1453.
Un altro aspetto da considerare è il rapido esaurimento della fertilità dei suoli più difficili: campi coltivati a 1500 m. d'altezza, zone acquitrinose strappate alla palude, aree ricondotte all'agricoltura dopo un'intensa attività di disboscamento. Tutte queste terre poco adatte alla coltivazione avevano inizialmente risposto bene all'attività agricola perché rimaste incolte per secoli. Sottoposte ad intenso sfruttamento, esse manifestano ben presto i loro limiti intrinseci e vengono pertanto abbandonate. Nel corso del '300 sono moltissimi i villaggi che scompaiono ed è la foresta a riguadagnare terreno.
In uno scenario in cui la popolazione europea si trova indebolita dalla fame, al punto che alcuni storici ammettono l'esistenza di fenomeni come l'infanticidio ed il cannibalismo, si innesta lo spaventoso flagello della pesta nera.
Il morbo, di cui si leggeva nelle antiche cronache, era scomparso dal continente almeno da cinque secoli, ovvero dall'età carolingia. Da allora, il basso Medioevo aveva visto fiorire una civiltà originale e complessa. Proprio la sua ricchezza è, in un certo senso, la causa della pandemia. L'espansione dell'impero mongolo a partire dal 1215 garantisce una via di comunicazione sicura tra l'Occidente e l'Oriente favoloso del Cataj e del Gran Khan. Carichi preziosi ed immense ricchezze vengono trasportate via terra e via mare, attraverso la via della seta e le città portuali del Vicino Oriente, del mar Nero, dell'Egitto. E' proprio da uno di questi empori - la cittadella genovese di Caffa - che giunge in Italia il bacillo della pasteurella pestis, ribattezzata nel 1894 yersinia pestis in onore del medico e biologo che per primo la isolò. Ne sono portatori inconsapevoli i ratti neri, onnipresenti nelle stive delle navi, e ne sono veicolo di contagio le loro pulci, il cui morso va ad infettare gli animali domestici e l'uomo. Un'ondata di morte si abbatte su tutto il continente tra il 1347 e il 1351, con una coda che si estende sino al 1353. Almeno 1/3 della popolazione europea non supera la crisi. E da quel momento la peste rimane una presenza costante nella vita di ogni generazione: la chiamano la morte nera ed è un'ospite inquietante, che chiede con inesorabile ciclicità il proprio tributo di sangue umano. Il crollo demografico e la convivenza forzata con il terrore della morte cambia decisamente gli equilibri in gioco ed innesca un effetto domino i cui effetti sono destinati a manifestarsi in un periodo di tempo molto lungo...
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mercoledì 13 febbraio 2019

9 - L'Italia contro: l'eterna lotta tra guelfi e ghibellini



Nel nostro immaginario relativo al Medioevo, accanto ai castelli, ai cavalieri, alle giostre e alle donne angelo di stilnovistica memoria, c'è un posto assicurato alle continue guerre che nel corso di 150 anni contrapposero in Italia due fazioni irriducibili: quella dei guelfi e quella dei ghibellini. Non esiste letteralmente studente che, affrontando la vita di Dante Alighieri o applicandosi alla lettura della Divina Commedia, non si sia imbattuto anche solo per sbaglio nella stagione degli esili, dei ribaltamenti di fronte e delle alleanze fra Comuni gemellati, auspice la comune fede guelfa o ghibellina. Ma da dove traggono origine questi termini e cosa significano?
Contrariamente a quanto molti pensano, le etichette storiche di 'guelfi' e 'ghibellini' non nascono in Italia, bensì in Germania. Il loro terreno di coltura sono le guerre di successione dinastica che si scatenano alla morte dell'imperatore Enrico V nel 1125, cioè subito dopo la tregua siglata dalla Chiesa e dall'Impero nella logorante lotta per le investiture (Concordato di Worms, 1122). Il mondo germanico si polarizza intorno a due potenti famiglie dell'aristocrazia feudale, che si danno battaglia per occupare il trono vacante: gli Hohenstaufen, duchi di Svevia, il cui quartier generale è il castello di Waiblingen; e i duchi di Baviera, la cui base è il castello di Welf. Questa partita si conclude con l'affermazione di Federico I di Svevia, soprannominato il Barbarossa, ma la fortuna dei due toponimi 'Waiblingen' e 'Welf' valica i confini della Germania per attecchire in Italia. Quale Italia?
L'Italia dei Comuni. La fioritura dei Comuni italiani è proprio legata alle vicende tedesche, ed in particolare alla disgregazione profonda che il Sacro Romano Impero di nazione germanica sperimenta dopo la stagione di rinnovata vitalità dell'età ottoniana. Il punto più basso di questa disgregazione della struttura feudale dello Stato si consuma proprio nelle lotte di successione dinastica appena citate. Ne approfittano le città italiane, che vivono una vera e propria rinascita dopo l'anno Mille e, dotandosi di uno statuto, danno vita ai Comuni. La loro esistenza costituisce un atto di disubbidienza e di illegalità rispetto alle norme del diritto feudale. Per questa ragione, non appena il rex Germanorum, dopo aver ridotto all'obbedienza i baroni tedeschi, è nelle condizioni di poter intervenire, scende in Italia per ristabilire il controllo su un territorio in preda, dal suo punto di vista, all'anarchia. Ecco allora che proclamarsi 'ghibellino' ('waiblingen') significa schierarsi dalla parte dell'imperatore e del suo diritto di regolare la vita politica italiana. In modo complementare, dichiararsi 'guelfo' ('Welf') significa contrastare l'imperatore, facendo perno sull'altra autorità presente sul suolo italiano: quella del papa.
Va detto che Federico Barbarossa si muove bene in Italia: fa leva sulle eterne diffidenze che lacerano il quadro politico comunale, presentandosi agli occhi dei Comuni più piccoli come il baluardo dagli attacchi predatori dei Comuni più grandi e potenti. Cinge la corona di ferro e poi si fa incoronare imperatore da Adriano IV, in cambio di un intervento di repressione nei confronti del tribuno Arnaldo da Brescia, leader di una rivolta popolare contro il potere pontificio, il quale finirà sul rogo. Proprio sul più bello, Federico è costretto a ripiegare in Germania per sedare una rivolta di baroni, che hanno rialzato la testa approfittando della sua lontananza. Qualche anno dopo (siamo ormai nel 1158) Federico ci riprova: scende in Italia, convoca la seconda dieta di Roncaglia e mette in chiaro le cose: i Comuni devono accettare un legato imperiale e rinunciare alle regalìe che hanno usurpato. Milano e Crema, che osano disobbedire, ne pagano le conseguenze e vengono elevate ad esempio eloquente della determinazione dell'imperatore: assediate e vinte, vengono rase al suolo.
A questo punto è la Chiesa a prendere in mano la situazione: morto Adriano IV, il nuovo papa Alessandro III - memore del già citato scontro fra Chiesa e Impero, ovvero la 'lotta per le investiture' -  ha le idee chiare riguardo alla necessità di scongiurare una presenza eccessivamente forte dell'Impero in Italia. Si dedica allora ad una iniziativa inedita: coordinare e presiedere una lega di Comuni in funzione anti imperiale. Ventidue Comuni vi aderiscono e ricambiano il sostegno ricevuto edificando una città-fortezza, ad eterna gloria del nome del papa: Alessandria. Costituita la Lega lombarda, giunge il momento dello scontro: Federico Barbarossa torna in Italia, convinto di poter replicare il successo di qualche anno prima. Si illude: al suono della martinella, confortati dal simbolo del carroccio, i Comuni ottengono un successo militare insperato e vengono trascinati alla vittoria dall'eroica (e forse leggendaria) figura di Alberto da Giussano e della sua compagnia della morte.
I guelfi hanno trionfato e l'imperatore è costretto ad accettare l'indipendenza sostanziale dei Comuni italiani. La partita fra guelfi e ghibellini non è affatto finita. Ci sarà un secondo tempo; e, neanche a dirlo, a giocarla - dalla parte imperiale - sarà un altro famosissimo Federico, nipote del Barbarossa, un uomo che sarà definito l'Anticristo: Federico II di Svevia...

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