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Alla fine della Grande Guerra il mondo sembrò improvvisamente vecchio.
Le trincee avevano divorato un’intera generazione e l’Europa, stremata, cercava di dare un senso a quella carneficina chiamandola “vittoria”. Ma sotto la retorica dei vincitori si aprivano crepe profonde: imperi dissolti, economie esauste, società inquiete.
In mezzo a quelle rovine, un uomo si alzò con la voce dell’idealismo. Si chiamava Woodrow Wilson, e sognava una pace nuova, fondata sul diritto e non sulla forza. I suoi Quattordici punti promettevano trasparenza, autodeterminazione, cooperazione tra i popoli. Ma l’Europa non era pronta: aveva bisogno di confini, di riparazioni, di colpevoli.
Il risultato fu il contrario di ciò che Wilson immaginava: un continente umiliato, frammentato, esposto a nuove tempeste.
Nel frattempo, gli Stati Uniti si allontanavano. Dopo aver salvato l’Europa sul campo, la lasciarono al suo destino. Tornarono al proprio sogno, quello dell’abbondanza e dell’individualismo. “Less government in business”, proclamavano i presidenti repubblicani degli anni Venti, e il Paese sembrava crederci davvero. Le città crescevano, le automobili invadevano le strade, il jazz risuonava nei locali e Hollywood inventava miti per il mondo intero.
Mentre il Vecchio Continente contava debiti, inflazione e nostalgie imperiali, l’America inventava il futuro.
Ma quella corsa vertiginosa conteneva già il seme della caduta: il credito facile, la fiducia cieca nel mercato, l’illusione che la ricchezza potesse crescere senza fine.
Questa lezione racconta il decennio del sorpasso, quando la storia cambiò direzione e il baricentro del mondo scivolò dall’Atlantico verso ovest.
Non è solo una cronaca economica: è un passaggio d’epoca.
Perché lì, tra Versailles e Wall Street, tra gli orrori della guerra e i ruggiti della prosperità, nasce la modernità che ancora ci abita — con le sue promesse, le sue disuguaglianze, e la sua eterna tentazione di confondere il benessere con la felicità.
