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La Palestina – o Israele, a seconda di chi guarda – non è solo un luogo sulla mappa: è un nodo infuocato di identità collettive, di memorie incompatibili, di promesse infrante e di desideri assoluti. È la sintesi dolorosa di ciò che accade quando la religione, la nazione e la storia si fondono in una miscela esplosiva, in cui ogni pietra, ogni albero, ogni rovina antica diventa oggetto di contesa, di rivendicazione, di sangue.
Questa vicenda non comincia nel 1948, né con la prima Intifada. Affonda le radici in epoche remote, quando Pompeo Magno entrava a Gerusalemme, quando Tito radeva al suolo il Tempio e disperdeva il popolo ebraico nel mondo, dando avvio a una diaspora che sarebbe durata quasi duemila anni. Da allora, l’ebraismo ha custodito nel cuore un desiderio inestinguibile: il ritorno. Non un sogno astratto, ma un punto fermo della fede, pronunciato ogni anno durante la Pasqua: “L’anno prossimo a Gerusalemme”.
Nel frattempo, sulla stessa terra, altri popoli hanno abitato, pregato, costruito. I palestinesi, che oggi si sentono minacciati nella loro stessa esistenza, sono gli eredi di una presenza continua, mutevole ma tenace, nella quale si sono stratificati imperi, califfati, domini ottomani e amministrazioni britanniche.
Il Novecento segna un punto di svolta. Mentre l’antisemitismo europeo esplode nella sua forma più feroce con la Shoah, cresce l’urgenza, per il popolo ebraico, di avere uno Stato proprio. È in questa direzione che vanno le prime aliyot, le emigrazioni verso la Palestina, alimentate dal sionismo di Herzl e dalla visione socialista di Moses Hess. Ma lo stesso territorio è già abitato, e le terre fertili sono poche. Il conflitto è iscritto nella geografia stessa del luogo.
Nel 1917, la Dichiarazione Balfour promette agli ebrei un "focolare nazionale" in Palestina. Pochi anni prima, però, Londra aveva promesso agli arabi l’indipendenza in cambio della loro rivolta contro i turchi ottomani. Due promesse incompatibili, fatte da uno stesso impero, a due popoli diversi. Il risultato è un crescendo di tensioni, attacchi, rappresaglie, mentre le autorità del Mandato britannico tentano invano di mediare. La Shoah rende tutto ancora più drammatico: centinaia di migliaia di sopravvissuti cercano rifugio in Palestina, in una terra che ormai non è più solo un simbolo, ma una necessità vitale.
Nel 1947, l’ONU propone la spartizione del territorio. Gli ebrei accettano. Gli arabi no. Nel maggio 1948, nasce lo Stato di Israele. E, il giorno dopo, scoppia la guerra. La Lega Araba tenta l’invasione, ma Israele resiste, si espande, si consolida. La Nakba, la catastrofe, è per i palestinesi: oltre 700.000 profughi, villaggi abbandonati o distrutti, campi in Libano, Giordania, Cisgiordania, Gaza. Il diritto al ritorno, mai concesso, diventa un mantra politico e spirituale per generazioni.
Gli anni Cinquanta e Sessanta vedono Israele allinearsi con l’Occidente, mentre l’Unione Sovietica sostiene i regimi arabi. In questo scenario, la Palestina diventa terreno di scontro della Guerra Fredda. Le guerre del 1956, del 1967 e del 1973 ridisegnano i confini. Israele occupa Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est, le Alture del Golan, il Sinai. I palestinesi, privati di uno Stato, affidano la loro rappresentanza all’OLP di Yasser Arafat, che alterna diplomazia e lotta armata, speranza e radicalismo.
Nel frattempo, cresce la presenza israeliana nei territori occupati: colonie, muri, check-point, tutto sembra progettato per rendere impossibile la nascita di uno Stato palestinese. Gli arabi rispondono con la prima Intifada: una rivolta popolare, fatta di pietre e barricate, di scioperi e slogan. Nasce Hamas, alimentato dall’islamismo militante e deciso a lottare fino all’ultimo respiro.
Nel 1993, tutto pare cambiare. A Oslo, sotto lo sguardo speranzoso del mondo, Arafat e Rabin si stringono la mano. Si parla di pace, di confini, di riconoscimento reciproco. Ma è un sogno fragile. I coloni non si fermano. Hamas non depone le armi. Rabin viene ucciso da un ebreo estremista. E il sogno si frantuma.
Da allora, il conflitto è rimasto sospeso in un limbo tragico, fatto di negoziati abortiti, intifade, rappresaglie, bombardamenti, accuse e silenzi. Gerusalemme è ancora divisa, Gaza è sotto assedio, la Cisgiordania sotto occupazione. Due popoli continuano a vivere fianco a fianco, ma non insieme, separati da muri fisici e invisibili.
Questa lezione non cerca di offrire una soluzione, né pretende di giudicare. Cerca piuttosto di raccontare una storia complessa, dolorosa, urgente, nella quale ogni evento, ogni parola, ogni gesto ha un peso millenario.
Perché in questa terra – più che altrove – la memoria non passa. E il futuro non arriva.