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C’è un confine, nell’angolo nordorientale d’Italia, dove la storia ha infierito con più forza che altrove. Un confine dove identità, lingue, popoli si sono intrecciati e combattuti per secoli, lasciando dietro di sé una terra ferita, ma anche tenace, capace di sopravvivere a ogni travaglio. È su questo confine che, tra il 1945 e il 1975, si consuma una lunga, estenuante partita, tanto più drammatica perché segnata dall’ombra delle foibe, dall’esodo giuliano-dalmata, e da una corsa diplomatica che avrà ripercussioni fino ai giorni nostri.
Nel 1945, all’alba della liberazione, Trieste appare come un simbolo. Tito l’ha conquistata con i suoi partigiani, intenzionato ad annettere l’intera Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo. Ma la città è anche nel mirino degli Alleati occidentali, per il suo porto strategico e per il valore politico che racchiude. La corsa per Trieste diventa così una delle prime sfide della Guerra Fredda, una sfida in cui il confine dell’Europa libera si disegna col sangue e con la paura.
I 42 giorni di occupazione jugoslava aprono ferite profonde: pulizia etnica, violenze, deportazioni, il terrore delle foibe che inghiotte italiani rei solo di essere italiani. In questo clima, Trieste vive un'agonia fatta di incertezza e speranza, tra l'attesa delle truppe alleate e il rischio concreto di un’annessione forzata.
Con l’Accordo di Belgrado e la linea Morgan si cerca un fragile compromesso: Trieste sotto amministrazione angloamericana, il resto dell’Istria nelle mani di Tito. Ma il dramma dell’esodo è appena iniziato. Migliaia di italiani fuggono da Pola, Fiume, Capodistria, abbandonando tutto per non rinnegare la propria identità. Un popolo di profughi senza terra, accolto spesso con freddezza e diffidenza nella stessa madrepatria.
La questione triestina diventa il termometro delle tensioni internazionali: De Gasperi, Togliatti, Sforza, Pella si muovono su un crinale scivoloso, tra l'esigenza di salvaguardare l'onore nazionale e la necessità di non rompere gli equilibri della nascente alleanza occidentale. Ogni trattativa, ogni memorandum, ogni dichiarazione sembra avvicinare o allontanare la possibilità di restituire Trieste all’Italia.
La politica internazionale evolve, e con essa il destino del confine orientale. Con la crisi jugoslava del 1948, con la frattura tra Tito e Stalin, Trieste diventa ancora una volta pedina nella grande scacchiera della Guerra Fredda.
Nel 1954, finalmente, il Memorandum di Londra sancisce il ritorno della Zona A all'Italia. I bersaglieri sfilano a Trieste tra due ali di folla in festa. È la chiusura simbolica della Seconda guerra mondiale per il nostro paese. Ma la vittoria è amara: la Zona B resta alla Jugoslavia, e con essa migliaia di italiani vedono svanire per sempre il sogno di tornare a casa.
Il clima cambia negli anni Settanta, con la ricerca di stabilità e il tentativo di evitare il collasso jugoslavo. Così si giunge al Trattato di Osimo del 1975, firmato in segreto e accolto con rabbia dai triestini: l'Italia rinuncia definitivamente a ogni rivendicazione sulla Zona B. Una scelta dettata da calcoli geopolitici, ma che molti visssero come un tradimento.
Eppure, come sempre accade nella nostra storia, nulla va davvero perduto. Nei campi profughi, nelle associazioni culturali, nei canti popolari, nelle memorie familiari dei discendenti dell’esodo, vive ancora l'anima di un confine che non si è mai lasciato chiudere in una riga tracciata sulle mappe.