Da trecento anni la consistenza demografica dell'Europa andava aumentando, ad un ritmo di crescita non fulminante, ma continuo. L'incremento della popolazione aveva consentito la specializzazione dei mestieri e aveva sostenuto la nascita di una civiltà complessa, raffinata dal punto di vista culturale e relativamente ricca sul piano economico. La pietra angolare su cui questa costruzione era stata edificata continuava ad essere l'agricoltura. Dopo i progressi successivi all'anno Mille, tuttavia, le tecniche agricole non avevano visto innovazioni significative; solo l'estensione delle aree messe a coltura aveva garantito una produzione sufficiente a sfamare la crescente massa di persone. In tempi normali le annate cattive non si traducevano immediatamente in una carestia: i governi provvedevano a stoccare scorte alimentari e, in caso di loro esaurimento, si premuravano di acquistare cereali da luoghi sufficientemente lontani da non aver risentito dello scarso raccolto. La situazione comincia a farsi seria quando l'ampiezza delle aree interessate da un rendimento agricolo insufficiente si allargano a dismisura: a quel punto cercare di acquistare altrove diventa impossibile.
Ma perché la terra cessa all'improvviso di produrre abbastanza di che vivere? La risposta a questa domanda è cruciale per capire quell'imponente fenomeno di ristrutturazione economica che generalmente va sotto il nome di "crisi del Trecento". Premesso che la storiografia non ha ancora scritto l'ultima parola su questo tema, si è cercato di rispondere in vari modi.
In primo luogo sembra ormai acclarato che qualcosa cambia nel clima, proprio a partire dai primi anni del XIV secolo. Sta per cominciare la piccola èra glaciale, che si prolungherà fino a tutto il '600, con temperature medie annuali nettamente più basse rispetto ai secoli immediatamente successivi all'anno Mille. Il Reno, il Tamigi, la Senna congelano regolarmente durante l'inverno e diventano percorribili non solo a piedi, ma addirittura in carrozza. Sappiamo inoltre che all'inizio del '300 si succedono estati fredde e piovose, al punto che il grano non arriva a maturazione e marcisce ancora in pianta.
Ad aggravare la situazione delle campagne si somma la guerra: il Trecento è un secolo in cui i conflitti si moltiplicano, portando con sé la devastazione dei terreni coltivati. Si pensi soltanto alla guerra dei Cent'anni, scoppiata tra la Francia e l'Inghilterra nel 1337 e che si prolunga fino al 1453.
Un altro aspetto da considerare è il rapido esaurimento della fertilità dei suoli più difficili: campi coltivati a 1500 m. d'altezza, zone acquitrinose strappate alla palude, aree ricondotte all'agricoltura dopo un'intensa attività di disboscamento. Tutte queste terre poco adatte alla coltivazione avevano inizialmente risposto bene all'attività agricola perché rimaste incolte per secoli. Sottoposte ad intenso sfruttamento, esse manifestano ben presto i loro limiti intrinseci e vengono pertanto abbandonate. Nel corso del '300 sono moltissimi i villaggi che scompaiono ed è la foresta a riguadagnare terreno.
In uno scenario in cui la popolazione europea si trova indebolita dalla fame, al punto che alcuni storici ammettono l'esistenza di fenomeni come l'infanticidio ed il cannibalismo, si innesta lo spaventoso flagello della pesta nera.
Il morbo, di cui si leggeva nelle antiche cronache, era scomparso dal continente almeno da cinque secoli, ovvero dall'età carolingia. Da allora, il basso Medioevo aveva visto fiorire una civiltà originale e complessa. Proprio la sua ricchezza è, in un certo senso, la causa della pandemia. L'espansione dell'impero mongolo a partire dal 1215 garantisce una via di comunicazione sicura tra l'Occidente e l'Oriente favoloso del Cataj e del Gran Khan. Carichi preziosi ed immense ricchezze vengono trasportate via terra e via mare, attraverso la via della seta e le città portuali del Vicino Oriente, del mar Nero, dell'Egitto. E' proprio da uno di questi empori - la cittadella genovese di Caffa - che giunge in Italia il bacillo della pasteurella pestis, ribattezzata nel 1894 yersinia pestis in onore del medico e biologo che per primo la isolò. Ne sono portatori inconsapevoli i ratti neri, onnipresenti nelle stive delle navi, e ne sono veicolo di contagio le loro pulci, il cui morso va ad infettare gli animali domestici e l'uomo. Un'ondata di morte si abbatte su tutto il continente tra il 1347 e il 1351, con una coda che si estende sino al 1353. Almeno 1/3 della popolazione europea non supera la crisi. E da quel momento la peste rimane una presenza costante nella vita di ogni generazione: la chiamano la morte nera ed è un'ospite inquietante, che chiede con inesorabile ciclicità il proprio tributo di sangue umano. Il crollo demografico e la convivenza forzata con il terrore della morte cambia decisamente gli equilibri in gioco ed innesca un effetto domino i cui effetti sono destinati a manifestarsi in un periodo di tempo molto lungo...
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Carissimi, ho voluto ritornare sul problema della terapia anti peste messa appunta da Alexandre Yersin dopo il 1894. Condivido con voi il risultato delle mie ricerche, incollando qui sotto il link della tesi di laurea da cui traggo le informazioni.
RispondiEliminahttps://www.radiocittadelcapo.it/wp-content/uploads/Storia-dei-vaccini-e-della-vaccinazione-in-Italia.pdf
In particolare vi invito a leggere questi passaggi:
"L’era dei microbi si era ormai aperta e un errore casuale ma provvidenziale permise a Pasteur di aprire l’era anche alle nuove vaccinazioni. Mentre i collaboratori del microbiologo francese stavano studiando i vari metodi per far crescere in condizioni sperimentali gli agenti patogeni, una coltura di batteri del colera dei polli venne per sbaglio lasciata invecchiare e, una volta inoculata agli animali non solo non era più in grado di provocare la malattia, ma addirittura li
rendeva resistenti a successive dosi di batteri virulenti. Nel 1880 erano state realizzate per la prima volta sia l’attenuazione della virulenza sia la riproduzione in laboratorio di un fenomeno
immunitario: la strada che conduceva alla realizzazione di nuovi e più sicuri vaccini si era appena mostrata davanti agli occhi degli studiosi di fine secolo. (...)
Mentre si stava realizzando la corsa alla preparazione di vaccini per ogni singola malattia un’altra fondamentale scoperta segnò l’inizio dell’immunizzazione passiva e un punto di svolta nelle teorie sul funzionamento dell’immunità. Nel 1890 Behring e Kitasato notarono che nel siero di cavie inoculate con bassissime dosi di bacilli di difterite o tetano comparivano sostanze in grado di proteggere dalle malattie tali cavie, ma anche gli animali ai quali era stato iniettato il siero di esse. In un colpo solo si gettavano le basi per la sieroterapia e la sieroprofilassi e si dimostrava una volta per tutte l’esistenza di anticorpi capaci di neutralizzare le tossine".
In conclusione, la vaccinazione è un'immunizzazione preventiva,che si ottiene con agenti patogeni depotenziati; la sieroterapia è una cura per chi ha già contratto la malattia, e si basa sull'inoculazione nel malato di siero tratto da individui che siano sopravvissuti alla stessa malattia, per la quale risultano quindi immunizzati. In sostanza, si tratta di immunotrasfusione. Questa pratica, come quella della vaccino terapia (ovvero la tempestiva cura di un malato nelle primissime fasi della malattia per mezzo di una vaccinazione "d'urgenza") è caduta in disuso, perché poco efficace ed è stata sostituita dall'era degli antibiotici.
Gli studi sulle muffe ad azione antibiotica iniziano nel 1895, proprio quando è attivo Yersin. Ma la scoperta di tossine antibiotiche non nocive per l'uomo avviene con Fleming, il quale isola casualmente la pennicilina (1929). Poco dopo, Gerhard Domagk riconosce le qualità antibiotiche dei sulfamidici (1935).
Il primo vaccino è stato sperimentato da Edward Jenner nel 1796 contro il vaiolo (ne avevamo parlato); i primi antibiotici furono impiegati nel 1941 e, in grandi quantità, solo nel 1944.