giovedì 17 ottobre 2024

7.1 - La conquista dello spazio: Kennedy sfida Krusciov

 

C’è stato un tempo in cui gli uomini scrutavano il cielo non per interrogare gli dei, ma per sfidarsi tra loro. Un tempo in cui ogni stella artificiale lanciata in orbita era una dichiarazione di potenza, ogni razzo un dito puntato contro il nemico, ogni orbita compiuta un anello di fumo tracciato nell’atmosfera della Guerra Fredda.

Tutto comincia nel silenzio del deserto. È il 16 luglio 1945. Nel New Mexico, il Trinity Test squarcia l’alba del mondo nuovo: l’umanità ha imparato a replicare il sole, ma non sa ancora se sarà capace di sopravvivere alla sua stessa luce. L’atomica diventa subito arma geopolitica, simbolo di forza, oggetto di timore. In pochi mesi, la distruzione di Hiroshima e Nagasaki non solo conclude una guerra, ma inaugura un'era: quella del terrore simmetrico, del mondo diviso in due, dell’equilibrio fondato sulla paura.

Gli Stati Uniti credono di detenere un’esclusiva. Ma nel 1949, l’URSS risponde: anche Mosca ha l’atomica. Comincia la corsa agli armamenti, sempre più veloci, sempre più potenti, sempre più insensati. Edward Teller progetta la bomba all’idrogeno, capace di mille Hiroshima, e la prova su un atollo dimenticato del Pacifico. Gli uomini costruiscono cupole di cemento per contenere le scorie, spostano popolazioni, contaminano mari, e fingono che tutto questo sia progresso.

Ma la guerra delle bombe non basta. I missili che possono portarle ovunque si rivelano anche mezzi per esplorare lo spazio. Così, mentre si studiano traiettorie balistiche, nasce un’idea che sembra uscita da un poema epico: arrivare oltre il cielo.

Il 4 ottobre 1957 lo Sputnik 1 entra in orbita. Un piccolo satellite di alluminio, ma dal peso immenso: il mondo capisce che i Sovietici sono davanti. Segue lo Sputnik 2, con a bordo una cagna, Laika, che muore in poche ore, sola e arrostita da un calore non previsto. Eppure il segnale è chiaro: l’uomo è prossimo a varcare la soglia dello spazio.

Gli Stati Uniti rispondono con fatica. Il Vanguard TV-3 esplode al lancio. A risollevare le sorti americane viene chiamato un uomo controverso, Wernher von Braun, ingegnere nazista, ufficiale delle SS, geniale progettista delle V2 che seminavano terrore in Inghilterra. Convertito alla causa americana, diventerà il padre del programma spaziale statunitense.

Nel 1961, l’URSS brucia ancora una volta il primato: Yurij Gagarin, figlio del popolo, operaio, pilota, è il primo uomo a orbitare attorno alla Terra. Il suo sorriso conquista il mondo, e le sue parole – “da quassù la Terra è bellissima, senza confini” – sembrano smentire la logica stessa della Guerra Fredda.

Kennedy, giovane presidente americano, non può restare indietro. Lancia una sfida che ha il sapore dell’epopea: portare un uomo sulla Luna e riportarlo indietro, prima che il decennio sia finito. Non è solo una sfida tecnica, ma una battaglia simbolica per la supremazia morale, culturale, politica.

Intanto, sul pianeta, si accumulano i missili, si perfezionano le testate multiple, si costruiscono bunker sotterranei, si redigono piani per l’apocalisse. Il mondo vive sospeso tra il sogno della Luna e l’incubo del fungo atomico. Le due immagini convivono, si sfidano, si rincorrono.

E poi arriva quel giorno. 20 luglio 1969. Armstrong poggia il piede sulla Luna. Il mondo trattiene il fiato. La voce gracchiante pronuncia parole che diventano leggenda: “un piccolo passo per un uomo, un balzo gigantesco per l’umanità”. Eppure, dietro il gesto, c’è tutto: la competizione, la paura, la speranza, l’ambizione, l’intelligenza, l’infanzia del futuro.

Dopo, verranno le stazioni spaziali, le missioni congiunte, gli scambi di informazioni tra nemici che cominciano a conoscersi. La corsa allo spazio non è mai stata solo scienza. È stata una sfida di civiltà, un’arena sospesa tra cielo e abisso, tra desiderio di sapere e bisogno di prevalere.

E forse, proprio lì, tra stelle e silenzi, l’uomo ha scoperto che può scegliere se costruire razzi o cattedrali, testate o telescopi, minacce o visioni. Per questo vale ancora la pena raccontare quella corsa. Perché ci insegna che la nostra storia non è scritta nelle orbite, ma nelle scelte.

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