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Era il 9 novembre 1989, e la notte cadeva su Berlino come ogni altra notte. Eppure, quella sera, qualcosa si spezzò nel silenzio del blocco orientale, come una diga che cede, come un nodo che si scioglie dopo anni di tensione trattenuta. Mentre i berlinesi dell’Est premevano ai varchi con un misto di timore e speranza, mentre le guardie di confine non sapevano più se obbedire o disobbedire, una crepa si apriva nel cuore d’Europa. E da lì sarebbe passato tutto: la gioia, la libertà, la confusione, la fine di un’epoca.
Ma per capire quel momento, bisogna tornare indietro. A Yalta, a Teheran, al giorno in cui Roosevelt, Churchill e Stalin si spartirono un continente come fosse un mazzo di carte. Bisogna tornare al 1945, alla bandiera rossa che sventola sul Reichstag, alla divisione della Germania, alle quattro zone, ai due blocchi, alle due ideologie che si guardano in cagnesco da un capo all’altro della cortina di ferro. Da Stettino a Trieste, come avrebbe detto Churchill, un sipario opaco cala sull’Europa, separando libertà e autoritarismo, democrazia e controllo, mercato e piano quinquennale.
Berlino è il simbolo perfetto di quella divisione. Una città mutilata, tagliata da un confine che è insieme geografico, politico, psicologico. Prima è solo un confine sottile, attraversabile, permeabile. Poi, nel 1961, diventa muro: filo spinato, cemento armato, torri di guardia, una striscia della morte sorvegliata da mitra e cani. È un muro che non separa due eserciti, ma un popolo da se stesso, una lingua dalla sua eco, una madre da suo figlio, un giovane dal suo futuro.
Eppure, anche i muri più solidi hanno fondamenta fragili. La DDR, come l’intero sistema sovietico, è un gigante dai piedi d’argilla: cresciuto sulla paura, ma incapace di reggere il confronto con il tempo. Le prime crepe arrivano da lontano: dalla Polonia di Solidarnosc, dall’Ungheria che taglia il filo spinato, dalla Cecoslovacchia che sogna una “rivoluzione di velluto”. E poi da Mosca, dove Gorbaciov, con le sue parole nuove – perestrojka, glasnost’ – tenta di salvare ciò che non si può più salvare. Le sue riforme sono come la brezza che precede il temporale: non lo evitano, lo annunciano.
Quando, per un errore di comunicazione, Schabowski annuncia la libertà di circolazione “con effetto immediato”, è come se il destino, stanco di aspettare, decidesse di agire in autonomia. I berlinesi si riversano ai posti di blocco. Nessuno spara. Nessuno arresta. Tutti guardano. E poi applaudono. E poi salgono sul muro. E lo abbattono, pezzo per pezzo, con martelli, picconi, mani nude.
Il mondo intero assiste. E mentre il cemento cade, cadono anche le certezze, le ideologie, i partiti unici, i piani quinquennali, le utopie del socialismo reale. Cade l’URSS. Cade il Patto di Varsavia. Cadono Ceausescu, Honecker, Husák. Inizia un’altra storia. O, forse, finisce l’ultima vera epopea politica del Novecento.
Ma ciò che segue non è solo luce. È anche smarrimento, disoccupazione, speculazione, shock economico, oligarchie nate sulle ceneri dello stato sociale. Uscire dal comunismo non significa solo guadagnare libertà: significa perdere certezze, sopportare l’inflazione, vedere le fabbriche chiudere, scoprire che la libertà è cosa fragile, esigente, persino costosa.
Eppure, il muro caduto resta una promessa. La promessa che nessuna prigione ideologica dura per sempre, che la storia può cambiare direzione anche nei luoghi dove sembrava immobile, che a volte bastano le gambe di un ragazzo che salta il filo spinato – come fece Conrad Schumann – per accendere la speranza di milioni.
Questa lezione racconta non solo un evento storico, ma una trasformazione profonda dell’anima europea. Perché quando crolla un muro, non c’è più un solo popolo che rinasce. Ce ne sono due. E con essi, un continente intero.
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