venerdì 25 aprile 2025

7.7 - Anni di piombo: nel tempo del terrore e dei cattivi maestri (1963-1982)

 

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La parola “piombo” richiama alla mente un metallo pesante, freddo, opaco. Ma nell’Italia tra il 1969 e il 1982 quel piombo ha un suono sinistro, tragico: è quello degli spari nelle piazze, delle esplosioni nelle banche, delle pallottole che mettono fine a vite e speranze. È un'epoca in cui la tensione politica si fa materia incandescente, attraversando il corpo della società come una febbre violenta.

Tutto comincia molto prima, sulle macerie della Seconda guerra mondiale. L’Italia liberata nel 1945 è un paese povero, lacerato, ma anche animato da una straordinaria energia. Si avvia la ricostruzione, si scrive la Costituzione, si vota per la Repubblica e, nel 1948, si tengono le prime elezioni democratiche in un clima già avvelenato dallo scontro ideologico tra Est e Ovest. L’aiuto americano del Piano Marshall, l’ingresso nella NATO e l’avvio del miracolo economico sembrano promettere una nuova stagione di stabilità e benessere.

Ma sotto la superficie luccicante delle lavatrici e delle automobili, qualcosa ribolle. I movimenti operai, soprattutto nel Nord industriale, cominciano a pretendere non solo salari, ma dignità. Gli studenti, nel Sessantotto, invocano libertà, immaginazione, nuovi orizzonti. È una generazione che rifiuta di accettare il mondo così com’è. Ma a quella spinta ideale si affianca, presto, un lato oscuro.

L’Italia entra in un’epoca che qualcuno ha definito “guerra civile a bassa intensità”. Le piazze si infiammano. Le stragi di Stato, come quella di Piazza Fontana (1969), aprono la stagione del sospetto. La cosiddetta strategia della tensione si propone – secondo molti – di generare paura per giustificare una stretta autoritaria. Gruppi neofascisti come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale colpiscono con bombe e attentati. Dall’altra parte, fioriscono sigle della sinistra rivoluzionaria: tra tutte le Brigate Rosse, protagoniste del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro nel 1978.

Non è solo una storia di sangue. È anche la parabola di una generazione che si illudeva di poter cambiare il mondo con la forza. Nelle università, nelle case occupate, nei collettivi, si teorizza una nuova società; ma spesso, a fianco dei libri, si affilano le armi. Emergono figure controverse: Toni Negri, Adriano Sofri, Curcio e Cagol. I cosiddetti “cattivi maestri” che, con il loro carisma e la loro retorica, ispirano molti giovani a imboccare la via della lotta armata.

Anche l’estrema destra, d’altro canto, agisce nell’ombra. Si muove tra piazze come San Babila, simbologie fasciste e connessioni con apparati deviati dello Stato. Il tentato golpe Borghese, la rete clandestina Gladio, il misterioso Piano Solo gettano un’ombra inquietante sulle istituzioni democratiche.

Alla fine, l’Italia uscirà da quel tunnel non con la rivoluzione, ma con il riflusso. Saranno gli anni Ottanta, con la loro televisione commerciale, la pubblicità, il consumismo sfrenato, a spegnere i fuochi delle ideologie. Si impongono nuovi idoli: l’efficienza, la bellezza, il successo. Il sogno del Sessantotto si dissolve nei riflettori di Drive In.

Ma il piombo resta. Nella memoria, nelle cicatrici, nelle biografie spezzate. E nel bisogno – oggi più che mai – di riconoscere, capire, riflettere. Perché se la storia non è maestra, almeno può essere specchio...

7.6 - Cuba, 1962: quando la guerra atomica sembrò inevitabile (1945-1962)

 

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C’è stato un momento nella storia in cui il mondo intero si è fermato a trattenere il respiro. Era l’ottobre del 1962. Per tredici giorni, la Terra ha vissuto sull’orlo dell’apocalisse nucleare, sospesa tra calcoli strategici e impulsi irrazionali, tra orgoglio politico e paura assoluta. Bastava un errore, un incidente, una parola di troppo – e sarebbe stato l’inizio della fine.

La chiamano crisi dei missili a Cuba, ma in realtà fu qualcosa di più: il punto più alto della tensione tra le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, che da tempo si affrontavano in una sfida globale per l’egemonia del pianeta. A dividere i blocchi, non solo ideologie e interessi, ma un abisso culturale, simbolico e persino antropologico.

Gli Stati Uniti di John Fitzgerald Kennedy, ancora scossi dal fallimento dell’invasione della Baia dei Porci, vedono nell’isola caraibica una minaccia insopportabile. Cuba, governata da un rivoluzionario irriducibile, Fidel Castro, si è trasformata da cortile di casa americana in avamposto armato del comunismo, protetto e rifornito da Mosca. La decisione di Nikita Krusciov di installare missili nucleari sull’isola appare agli occhi del mondo come un passo che avvicina l’abisso.

Ma questa storia non comincia a Cuba. Le sue radici affondano nel 1945, con Hiroshima e Nagasaki, e si ramificano attraverso la guerra di Corea, il Vietnam, la rivoluzione cinese, la questione israeliana. Il globo è diviso in due, e ogni scontro locale rischia di diventare globale. La logica della deterrenza e del mutuo annientamento assicurato domina le relazioni internazionali.

Cuba è, in questo contesto, il simbolo perfetto: piccola, povera, rivoluzionaria, ma proiettata sulla scena mondiale. La sua trasformazione da Las Vegas dei tropici a bastione anti-imperialista è rapidissima e radicale. Castro, assieme all’irrequieto Che Guevara, incarna un nuovo modello: il comunismo caraibico, emotivo, idealista, ribelle. Una provocazione vivente agli occhi dell’America conservatrice.

Quando gli aerei spia U2 fotografano le rampe missilistiche, il presidente Kennedy è costretto a scegliere tra l’attacco preventivo e la “quarantena navale”. Opta per la seconda, consapevole che ogni passo falso potrebbe scatenare la terza guerra mondiale. Nel frattempo, si consuma un gioco diplomatico febbrile, mentre la Marina USA blocca le navi sovietiche e la Casa Bianca valuta le opzioni nucleari.

Dietro le quinte, trattative riservatissime. Il fratello del presidente, Robert Kennedy, dialoga con l’ambasciatore sovietico Dobrynin. Intanto, a Roma, in un contesto tutto diverso – l’apertura del Concilio Vaticano II – papa Giovanni XXIII lancia un appello alla pace che attraversa le cortine ideologiche e parla al cuore dell’umanità.

Alla fine, il compromesso: ritiro dei missili da Cuba in cambio del ritiro (non pubblicizzato) di quelli americani dalla Turchia. Il mondo è salvo. Ma non dimentica. La “linea rossa” che collega Washington e Mosca viene istituita proprio per evitare altri incubi simili.

Questa crisi, come poche altre, ci mostra quanto la storia sia fatta di persone, decisioni, parole, più che di forze impersonali. E quanto la pace, anche nell’epoca degli equilibri atomici, resti sempre una scelta fragile, da rinnovare giorno per giorno.

7.5 - L’Italia s’è desta: dalla ricostruzione al miracolo economico (1945-1963)

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Ci sono momenti in cui la storia pare risorgere dal nulla, come un campo arato che all’improvviso si colora di germogli. Così fu per l'Italia del secondo dopoguerra: un paese distrutto, umiliato, affamato, eppure carico di una energia segreta, destinata a cambiare per sempre il proprio destino.

Quando nel 1945 le macerie ancora fumavano, l'Italia appariva una terra sospesa tra passato e futuro. Le città erano fantasmi di pietra, la vita quotidiana un esercizio di sopravvivenza: raccolta di rottami, mercati di strada, bambini che giocavano con il niente. Un'umanità minuta, poverissima, eppure straordinariamente viva. Nelle campagne, le donne aravano i campi a forza di braccia, mentre nelle città il cappello era ancora segno di dignità, ultimo retaggio di un mondo che stava finendo.

Eppure, già si intravedeva il fremito di qualcosa di nuovo. Dopo anni di fame e tessere annonarie, arriva l'aiuto internazionale: l'UNRRA prima, il Piano Marshall poi. Una nuova speranza filtra dalle crepe dei muri crollati. Le case si ricostruiscono, i binari si riparano, i bambini riprendono a sognare.

La cultura registra il mutamento: il neorealismo cinematograficoLadri di biciclette, La terra trema – racconta una nazione senza filtri, nuda nella sua miseria, eppure capace di riscatto.

È una trasformazione profonda, che parte dal fondo della società: il sistema agricolo viene riformato, le grandi proprietà spezzate in piccoli appezzamenti, mentre il Triangolo IndustrialeMilano, Torino, Genova – avvia la marcia verso l’industrializzazione.

Gli anni Cinquanta sono anni di contrasti: sfruttamento e speculazione, ma anche lavoro, risparmio, fiducia. Le periferie si gonfiano come alveari disordinati, ma nelle officine, nei cantieri, nei campi, milioni di italiani scommettono sul futuro. La FIAT 1100 diventa un sogno lontano, ma reale. E lentamente, la bicicletta lascia il passo allo scooter, la stufa a carbone ai primi elettrodomestici.

Il 1958 è l’anno della svolta. Per la prima volta gli operai superano i contadini. La civiltà rurale millenaria si dissolve in un decennio. Nasce il Made in Italy, nascono i distretti industriali. Il miracolo economico è servito: il reddito cresce, la disoccupazione cala, la mobilità sociale sembra una realtà raggiungibile.

A guidare questa trasformazione sono uomini forgiati dalla tragedia della guerra: Einaudi, De Gasperi, Mattei, Carli. Portano serietà, prudenza, una visione alta della politica e dell’economia. È una stagione irripetibile, in cui l’intervento pubblico si combina con l’iniziativa privata, e la ricostruzione diventa creazione.

L’Italia cambia volto: nasce l'autostrada del Sole, si diffonde la televisione, la RAI educa e uniforma, Carosello insegna a desiderare. Gli italiani scoprono il consumismo e, insieme, una nuova identità collettiva.

Nelle case si accendono frigoriferi, lavatrici, televisori portatili; nelle città si moltiplicano le automobili e i supermercati. Nelle stazioni e nei vagoni, milioni di emigranti interni cercano fortuna nel Nord industriale, sfidando il gelo degli scantinati e l’indifferenza delle metropoli.

A fianco dell'abbondanza, però, si intravede già l'ombra della perdita: l’omologazione culturale, l’inquinamento, il saccheggio del territorio. Come scriveva Leo Longanesi, mentre la finta ricchezza dilaga, il vero volto dell’Italia rischia di dissolversi senza lasciar traccia.

Eppure, tra il rombo delle Vespe e il profumo della plastica nuova, rimane un dato inequivocabile: l’Italia si è desta, ed è entrata con passo deciso nella modernità.