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C’è stato un momento nella storia in cui il mondo intero si è fermato a trattenere il respiro. Era l’ottobre del 1962. Per tredici giorni, la Terra ha vissuto sull’orlo dell’apocalisse nucleare, sospesa tra calcoli strategici e impulsi irrazionali, tra orgoglio politico e paura assoluta. Bastava un errore, un incidente, una parola di troppo – e sarebbe stato l’inizio della fine.
La chiamano crisi dei missili a Cuba, ma in realtà fu qualcosa di più: il punto più alto della tensione tra le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, che da tempo si affrontavano in una sfida globale per l’egemonia del pianeta. A dividere i blocchi, non solo ideologie e interessi, ma un abisso culturale, simbolico e persino antropologico.
Gli Stati Uniti di John Fitzgerald Kennedy, ancora scossi dal fallimento dell’invasione della Baia dei Porci, vedono nell’isola caraibica una minaccia insopportabile. Cuba, governata da un rivoluzionario irriducibile, Fidel Castro, si è trasformata da cortile di casa americana in avamposto armato del comunismo, protetto e rifornito da Mosca. La decisione di Nikita Krusciov di installare missili nucleari sull’isola appare agli occhi del mondo come un passo che avvicina l’abisso.
Ma questa storia non comincia a Cuba. Le sue radici affondano nel 1945, con Hiroshima e Nagasaki, e si ramificano attraverso la guerra di Corea, il Vietnam, la rivoluzione cinese, la questione israeliana. Il globo è diviso in due, e ogni scontro locale rischia di diventare globale. La logica della deterrenza e del mutuo annientamento assicurato domina le relazioni internazionali.
Cuba è, in questo contesto, il simbolo perfetto: piccola, povera, rivoluzionaria, ma proiettata sulla scena mondiale. La sua trasformazione da Las Vegas dei tropici a bastione anti-imperialista è rapidissima e radicale. Castro, assieme all’irrequieto Che Guevara, incarna un nuovo modello: il comunismo caraibico, emotivo, idealista, ribelle. Una provocazione vivente agli occhi dell’America conservatrice.
Quando gli aerei spia U2 fotografano le rampe missilistiche, il presidente Kennedy è costretto a scegliere tra l’attacco preventivo e la “quarantena navale”. Opta per la seconda, consapevole che ogni passo falso potrebbe scatenare la terza guerra mondiale. Nel frattempo, si consuma un gioco diplomatico febbrile, mentre la Marina USA blocca le navi sovietiche e la Casa Bianca valuta le opzioni nucleari.
Dietro le quinte, trattative riservatissime. Il fratello del presidente, Robert Kennedy, dialoga con l’ambasciatore sovietico Dobrynin. Intanto, a Roma, in un contesto tutto diverso – l’apertura del Concilio Vaticano II – papa Giovanni XXIII lancia un appello alla pace che attraversa le cortine ideologiche e parla al cuore dell’umanità.
Alla fine, il compromesso: ritiro dei missili da Cuba in cambio del ritiro (non pubblicizzato) di quelli americani dalla Turchia. Il mondo è salvo. Ma non dimentica. La “linea rossa” che collega Washington e Mosca viene istituita proprio per evitare altri incubi simili.
Questa crisi, come poche altre, ci mostra quanto la storia sia fatta di persone, decisioni, parole, più che di forze impersonali. E quanto la pace, anche nell’epoca degli equilibri atomici, resti sempre una scelta fragile, da rinnovare giorno per giorno.
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