giovedì 15 maggio 2025

7.8 - C’era una volta la Jugoslavia: orrore in diretta TV (1991-99)

 


Una terra composita, ricca di voci e di popoli, dove si intrecciavano alfabeti, religioni, memorie, guerre e speranze. Sei repubbliche, due province autonome, tre religioni, quattro lingue, due alfabeti, un partito solo. Una costruzione fragile, tenuta in equilibrio dal carisma di un solo uomo: Josip Broz Tito. Ma anche le strutture più imponenti, se fondate su linee di faglia, prima o poi crollano.

Tutto comincia molto prima della fine. L’idea jugoslava nasce nel sangue, nei conflitti dell’età degli imperi, tra Vienna e Istanbul, tra Roma e Berlino. Si consolida con la guerra mondiale, si ricompone sotto la bandiera della resistenza antifascista, si plasma infine nel socialismo autogestito, né sovietico né capitalista, un’anomalia lucida che per qualche decennio riesce a funzionare.

Tito è tutto. Il leader partigiano che libera Belgrado senza l’aiuto diretto degli eserciti stranieri; l’alleato di Churchill e Roosevelt, ma anche il nemico di Stalin; il fondatore del Movimento dei Paesi non allineati; il padre di una patria multietnica e indisciplinata che lo venera come simbolo e garante della coesistenza. Finché lui c’è, la macchina funziona. Poi, il vuoto.

Alla sua morte, nel 1980, qualcosa si spezza. Le tensioni etniche che l’autorità carismatica aveva represso riemergono in superficie. Le riforme liberiste degli anni Ottanta, dettate dal Fondo Monetario Internazionale, precipitano milioni di persone nella povertà. La storia viene riscritta in chiave etnonazionalista, e i fantasmi del passato tornano ad armare le mani dei presenti.

Slobodan Milošević, il “Gorbaciov di Belgrado”, si presenta come difensore dei serbi ovunque essi si trovino. Ma la sua idea di Jugoslavia è diversa: non più un mosaico, ma una piramide con un solo vertice. Nel frattempo, gli altri popoli – croati, sloveni, bosgnacchi, kosovari – intravedono l’unica via d’uscita nella secessione. La Jugoslavia si disintegra tra referendum e cannoni.

Nel volgere di pochi anni, il cuore dei Balcani si trasforma in un inferno: Vukovar, Dubrovnik, Sarajevo, Srebrenica diventano nomi che non evocano solo città, ma simboli di assedi, massacri, stupri etnici, genocidi. La televisione trasmette l’orrore in diretta, giorno dopo giorno, come un reality dell’apocalisse.

Le potenze occidentali, inizialmente lente, poi più risolute, intervengono nel 1999 con la NATO. Belgrado viene bombardata. Milošević, il “macellaio dei Balcani”, finirà in carcere, ma senza che un vero processo arrivi mai a conclusione. L’ex Jugoslavia non esiste più: al suo posto, sette stati, ognuno con ferite aperte, memorie non pacificate, sogni incerti.

Eppure, nonostante tutto, i ponti si ricostruiscono: il Ponte di Mostar, abbattuto nel 1993, rinasce nel 2004 come simbolo di possibile riconciliazione. Le bandiere sono cambiate, ma le strade, le piazze, le canzoni, i cibi e i tratti del volto ricordano ancora a tutti che, un tempo, c’era una volta la Jugoslavia.

venerdì 25 aprile 2025

7.7 - Anni di piombo: nel tempo del terrore e dei cattivi maestri (1963-1982)

 

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La parola “piombo” richiama alla mente un metallo pesante, freddo, opaco. Ma nell’Italia tra il 1969 e il 1982 quel piombo ha un suono sinistro, tragico: è quello degli spari nelle piazze, delle esplosioni nelle banche, delle pallottole che mettono fine a vite e speranze. È un'epoca in cui la tensione politica si fa materia incandescente, attraversando il corpo della società come una febbre violenta.

Tutto comincia molto prima, sulle macerie della Seconda guerra mondiale. L’Italia liberata nel 1945 è un paese povero, lacerato, ma anche animato da una straordinaria energia. Si avvia la ricostruzione, si scrive la Costituzione, si vota per la Repubblica e, nel 1948, si tengono le prime elezioni democratiche in un clima già avvelenato dallo scontro ideologico tra Est e Ovest. L’aiuto americano del Piano Marshall, l’ingresso nella NATO e l’avvio del miracolo economico sembrano promettere una nuova stagione di stabilità e benessere.

Ma sotto la superficie luccicante delle lavatrici e delle automobili, qualcosa ribolle. I movimenti operai, soprattutto nel Nord industriale, cominciano a pretendere non solo salari, ma dignità. Gli studenti, nel Sessantotto, invocano libertà, immaginazione, nuovi orizzonti. È una generazione che rifiuta di accettare il mondo così com’è. Ma a quella spinta ideale si affianca, presto, un lato oscuro.

L’Italia entra in un’epoca che qualcuno ha definito “guerra civile a bassa intensità”. Le piazze si infiammano. Le stragi di Stato, come quella di Piazza Fontana (1969), aprono la stagione del sospetto. La cosiddetta strategia della tensione si propone – secondo molti – di generare paura per giustificare una stretta autoritaria. Gruppi neofascisti come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale colpiscono con bombe e attentati. Dall’altra parte, fioriscono sigle della sinistra rivoluzionaria: tra tutte le Brigate Rosse, protagoniste del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro nel 1978.

Non è solo una storia di sangue. È anche la parabola di una generazione che si illudeva di poter cambiare il mondo con la forza. Nelle università, nelle case occupate, nei collettivi, si teorizza una nuova società; ma spesso, a fianco dei libri, si affilano le armi. Emergono figure controverse: Toni Negri, Adriano Sofri, Curcio e Cagol. I cosiddetti “cattivi maestri” che, con il loro carisma e la loro retorica, ispirano molti giovani a imboccare la via della lotta armata.

Anche l’estrema destra, d’altro canto, agisce nell’ombra. Si muove tra piazze come San Babila, simbologie fasciste e connessioni con apparati deviati dello Stato. Il tentato golpe Borghese, la rete clandestina Gladio, il misterioso Piano Solo gettano un’ombra inquietante sulle istituzioni democratiche.

Alla fine, l’Italia uscirà da quel tunnel non con la rivoluzione, ma con il riflusso. Saranno gli anni Ottanta, con la loro televisione commerciale, la pubblicità, il consumismo sfrenato, a spegnere i fuochi delle ideologie. Si impongono nuovi idoli: l’efficienza, la bellezza, il successo. Il sogno del Sessantotto si dissolve nei riflettori di Drive In.

Ma il piombo resta. Nella memoria, nelle cicatrici, nelle biografie spezzate. E nel bisogno – oggi più che mai – di riconoscere, capire, riflettere. Perché se la storia non è maestra, almeno può essere specchio...

7.6 - Cuba, 1962: quando la guerra atomica sembrò inevitabile (1945-1962)

 

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C’è stato un momento nella storia in cui il mondo intero si è fermato a trattenere il respiro. Era l’ottobre del 1962. Per tredici giorni, la Terra ha vissuto sull’orlo dell’apocalisse nucleare, sospesa tra calcoli strategici e impulsi irrazionali, tra orgoglio politico e paura assoluta. Bastava un errore, un incidente, una parola di troppo – e sarebbe stato l’inizio della fine.

La chiamano crisi dei missili a Cuba, ma in realtà fu qualcosa di più: il punto più alto della tensione tra le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, che da tempo si affrontavano in una sfida globale per l’egemonia del pianeta. A dividere i blocchi, non solo ideologie e interessi, ma un abisso culturale, simbolico e persino antropologico.

Gli Stati Uniti di John Fitzgerald Kennedy, ancora scossi dal fallimento dell’invasione della Baia dei Porci, vedono nell’isola caraibica una minaccia insopportabile. Cuba, governata da un rivoluzionario irriducibile, Fidel Castro, si è trasformata da cortile di casa americana in avamposto armato del comunismo, protetto e rifornito da Mosca. La decisione di Nikita Krusciov di installare missili nucleari sull’isola appare agli occhi del mondo come un passo che avvicina l’abisso.

Ma questa storia non comincia a Cuba. Le sue radici affondano nel 1945, con Hiroshima e Nagasaki, e si ramificano attraverso la guerra di Corea, il Vietnam, la rivoluzione cinese, la questione israeliana. Il globo è diviso in due, e ogni scontro locale rischia di diventare globale. La logica della deterrenza e del mutuo annientamento assicurato domina le relazioni internazionali.

Cuba è, in questo contesto, il simbolo perfetto: piccola, povera, rivoluzionaria, ma proiettata sulla scena mondiale. La sua trasformazione da Las Vegas dei tropici a bastione anti-imperialista è rapidissima e radicale. Castro, assieme all’irrequieto Che Guevara, incarna un nuovo modello: il comunismo caraibico, emotivo, idealista, ribelle. Una provocazione vivente agli occhi dell’America conservatrice.

Quando gli aerei spia U2 fotografano le rampe missilistiche, il presidente Kennedy è costretto a scegliere tra l’attacco preventivo e la “quarantena navale”. Opta per la seconda, consapevole che ogni passo falso potrebbe scatenare la terza guerra mondiale. Nel frattempo, si consuma un gioco diplomatico febbrile, mentre la Marina USA blocca le navi sovietiche e la Casa Bianca valuta le opzioni nucleari.

Dietro le quinte, trattative riservatissime. Il fratello del presidente, Robert Kennedy, dialoga con l’ambasciatore sovietico Dobrynin. Intanto, a Roma, in un contesto tutto diverso – l’apertura del Concilio Vaticano II – papa Giovanni XXIII lancia un appello alla pace che attraversa le cortine ideologiche e parla al cuore dell’umanità.

Alla fine, il compromesso: ritiro dei missili da Cuba in cambio del ritiro (non pubblicizzato) di quelli americani dalla Turchia. Il mondo è salvo. Ma non dimentica. La “linea rossa” che collega Washington e Mosca viene istituita proprio per evitare altri incubi simili.

Questa crisi, come poche altre, ci mostra quanto la storia sia fatta di persone, decisioni, parole, più che di forze impersonali. E quanto la pace, anche nell’epoca degli equilibri atomici, resti sempre una scelta fragile, da rinnovare giorno per giorno.

7.5 - L’Italia s’è desta: dalla ricostruzione al miracolo economico (1945-1963)

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Ci sono momenti in cui la storia pare risorgere dal nulla, come un campo arato che all’improvviso si colora di germogli. Così fu per l'Italia del secondo dopoguerra: un paese distrutto, umiliato, affamato, eppure carico di una energia segreta, destinata a cambiare per sempre il proprio destino.

Quando nel 1945 le macerie ancora fumavano, l'Italia appariva una terra sospesa tra passato e futuro. Le città erano fantasmi di pietra, la vita quotidiana un esercizio di sopravvivenza: raccolta di rottami, mercati di strada, bambini che giocavano con il niente. Un'umanità minuta, poverissima, eppure straordinariamente viva. Nelle campagne, le donne aravano i campi a forza di braccia, mentre nelle città il cappello era ancora segno di dignità, ultimo retaggio di un mondo che stava finendo.

Eppure, già si intravedeva il fremito di qualcosa di nuovo. Dopo anni di fame e tessere annonarie, arriva l'aiuto internazionale: l'UNRRA prima, il Piano Marshall poi. Una nuova speranza filtra dalle crepe dei muri crollati. Le case si ricostruiscono, i binari si riparano, i bambini riprendono a sognare.

La cultura registra il mutamento: il neorealismo cinematograficoLadri di biciclette, La terra trema – racconta una nazione senza filtri, nuda nella sua miseria, eppure capace di riscatto.

È una trasformazione profonda, che parte dal fondo della società: il sistema agricolo viene riformato, le grandi proprietà spezzate in piccoli appezzamenti, mentre il Triangolo IndustrialeMilano, Torino, Genova – avvia la marcia verso l’industrializzazione.

Gli anni Cinquanta sono anni di contrasti: sfruttamento e speculazione, ma anche lavoro, risparmio, fiducia. Le periferie si gonfiano come alveari disordinati, ma nelle officine, nei cantieri, nei campi, milioni di italiani scommettono sul futuro. La FIAT 1100 diventa un sogno lontano, ma reale. E lentamente, la bicicletta lascia il passo allo scooter, la stufa a carbone ai primi elettrodomestici.

Il 1958 è l’anno della svolta. Per la prima volta gli operai superano i contadini. La civiltà rurale millenaria si dissolve in un decennio. Nasce il Made in Italy, nascono i distretti industriali. Il miracolo economico è servito: il reddito cresce, la disoccupazione cala, la mobilità sociale sembra una realtà raggiungibile.

A guidare questa trasformazione sono uomini forgiati dalla tragedia della guerra: Einaudi, De Gasperi, Mattei, Carli. Portano serietà, prudenza, una visione alta della politica e dell’economia. È una stagione irripetibile, in cui l’intervento pubblico si combina con l’iniziativa privata, e la ricostruzione diventa creazione.

L’Italia cambia volto: nasce l'autostrada del Sole, si diffonde la televisione, la RAI educa e uniforma, Carosello insegna a desiderare. Gli italiani scoprono il consumismo e, insieme, una nuova identità collettiva.

Nelle case si accendono frigoriferi, lavatrici, televisori portatili; nelle città si moltiplicano le automobili e i supermercati. Nelle stazioni e nei vagoni, milioni di emigranti interni cercano fortuna nel Nord industriale, sfidando il gelo degli scantinati e l’indifferenza delle metropoli.

A fianco dell'abbondanza, però, si intravede già l'ombra della perdita: l’omologazione culturale, l’inquinamento, il saccheggio del territorio. Come scriveva Leo Longanesi, mentre la finta ricchezza dilaga, il vero volto dell’Italia rischia di dissolversi senza lasciar traccia.

Eppure, tra il rombo delle Vespe e il profumo della plastica nuova, rimane un dato inequivocabile: l’Italia si è desta, ed è entrata con passo deciso nella modernità.

giovedì 20 febbraio 2025

7.4 - Corsa per Trieste: dalle foibe al Trattato di Osimo (1945-1975)

  

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C’è un confine, nell’angolo nordorientale d’Italia, dove la storia ha infierito con più forza che altrove. Un confine dove identità, lingue, popoli si sono intrecciati e combattuti per secoli, lasciando dietro di sé una terra ferita, ma anche tenace, capace di sopravvivere a ogni travaglio. È su questo confine che, tra il 1945 e il 1975, si consuma una lunga, estenuante partita, tanto più drammatica perché segnata dall’ombra delle foibe, dall’esodo giuliano-dalmata, e da una corsa diplomatica che avrà ripercussioni fino ai giorni nostri.

Nel 1945, all’alba della liberazione, Trieste appare come un simbolo. Tito l’ha conquistata con i suoi partigiani, intenzionato ad annettere l’intera Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo. Ma la città è anche nel mirino degli Alleati occidentali, per il suo porto strategico e per il valore politico che racchiude. La corsa per Trieste diventa così una delle prime sfide della Guerra Fredda, una sfida in cui il confine dell’Europa libera si disegna col sangue e con la paura.

I 42 giorni di occupazione jugoslava aprono ferite profonde: pulizia etnica, violenze, deportazioni, il terrore delle foibe che inghiotte italiani rei solo di essere italiani. In questo clima, Trieste vive un'agonia fatta di incertezza e speranza, tra l'attesa delle truppe alleate e il rischio concreto di un’annessione forzata.

Con l’Accordo di Belgrado e la linea Morgan si cerca un fragile compromesso: Trieste sotto amministrazione angloamericana, il resto dell’Istria nelle mani di Tito. Ma il dramma dell’esodo è appena iniziato. Migliaia di italiani fuggono da Pola, Fiume, Capodistria, abbandonando tutto per non rinnegare la propria identità. Un popolo di profughi senza terra, accolto spesso con freddezza e diffidenza nella stessa madrepatria.

La questione triestina diventa il termometro delle tensioni internazionali: De Gasperi, Togliatti, Sforza, Pella si muovono su un crinale scivoloso, tra l'esigenza di salvaguardare l'onore nazionale e la necessità di non rompere gli equilibri della nascente alleanza occidentale. Ogni trattativa, ogni memorandum, ogni dichiarazione sembra avvicinare o allontanare la possibilità di restituire Trieste all’Italia.

La politica internazionale evolve, e con essa il destino del confine orientale. Con la crisi jugoslava del 1948, con la frattura tra Tito e Stalin, Trieste diventa ancora una volta pedina nella grande scacchiera della Guerra Fredda.

Nel 1954, finalmente, il Memorandum di Londra sancisce il ritorno della Zona A all'Italia. I bersaglieri sfilano a Trieste tra due ali di folla in festa. È la chiusura simbolica della Seconda guerra mondiale per il nostro paese. Ma la vittoria è amara: la Zona B resta alla Jugoslavia, e con essa migliaia di italiani vedono svanire per sempre il sogno di tornare a casa.

Il clima cambia negli anni Settanta, con la ricerca di stabilità e il tentativo di evitare il collasso jugoslavo. Così si giunge al Trattato di Osimo del 1975, firmato in segreto e accolto con rabbia dai triestini: l'Italia rinuncia definitivamente a ogni rivendicazione sulla Zona B. Una scelta dettata da calcoli geopolitici, ma che molti visssero come un tradimento.

Eppure, come sempre accade nella nostra storia, nulla va davvero perduto. Nei campi profughi, nelle associazioni culturali, nei canti popolari, nelle memorie familiari dei discendenti dell’esodo, vive ancora l'anima di un confine che non si è mai lasciato chiudere in una riga tracciata sulle mappe.

mercoledì 11 dicembre 2024

7.3 - Israeliani e Palestinesi: storia di una convivenza impossibile

 

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La Palestina – o Israele, a seconda di chi guarda – non è solo un luogo sulla mappa: è un nodo infuocato di identità collettive, di memorie incompatibili, di promesse infrante e di desideri assoluti. È la sintesi dolorosa di ciò che accade quando la religione, la nazione e la storia si fondono in una miscela esplosiva, in cui ogni pietra, ogni albero, ogni rovina antica diventa oggetto di contesa, di rivendicazione, di sangue.

Questa vicenda non comincia nel 1948, né con la prima Intifada. Affonda le radici in epoche remote, quando Pompeo Magno entrava a Gerusalemme, quando Tito radeva al suolo il Tempio e disperdeva il popolo ebraico nel mondo, dando avvio a una diaspora che sarebbe durata quasi duemila anni. Da allora, l’ebraismo ha custodito nel cuore un desiderio inestinguibile: il ritorno. Non un sogno astratto, ma un punto fermo della fede, pronunciato ogni anno durante la Pasqua: “L’anno prossimo a Gerusalemme”.

Nel frattempo, sulla stessa terra, altri popoli hanno abitato, pregato, costruito. I palestinesi, che oggi si sentono minacciati nella loro stessa esistenza, sono gli eredi di una presenza continua, mutevole ma tenace, nella quale si sono stratificati imperi, califfati, domini ottomani e amministrazioni britanniche.

Il Novecento segna un punto di svolta. Mentre l’antisemitismo europeo esplode nella sua forma più feroce con la Shoah, cresce l’urgenza, per il popolo ebraico, di avere uno Stato proprio. È in questa direzione che vanno le prime aliyot, le emigrazioni verso la Palestina, alimentate dal sionismo di Herzl e dalla visione socialista di Moses Hess. Ma lo stesso territorio è già abitato, e le terre fertili sono poche. Il conflitto è iscritto nella geografia stessa del luogo.

Nel 1917, la Dichiarazione Balfour promette agli ebrei un "focolare nazionale" in Palestina. Pochi anni prima, però, Londra aveva promesso agli arabi l’indipendenza in cambio della loro rivolta contro i turchi ottomani. Due promesse incompatibili, fatte da uno stesso impero, a due popoli diversi. Il risultato è un crescendo di tensioni, attacchi, rappresaglie, mentre le autorità del Mandato britannico tentano invano di mediare. La Shoah rende tutto ancora più drammatico: centinaia di migliaia di sopravvissuti cercano rifugio in Palestina, in una terra che ormai non è più solo un simbolo, ma una necessità vitale.

Nel 1947, l’ONU propone la spartizione del territorio. Gli ebrei accettano. Gli arabi no. Nel maggio 1948, nasce lo Stato di Israele. E, il giorno dopo, scoppia la guerra. La Lega Araba tenta l’invasione, ma Israele resiste, si espande, si consolida. La Nakba, la catastrofe, è per i palestinesi: oltre 700.000 profughi, villaggi abbandonati o distrutti, campi in Libano, Giordania, Cisgiordania, Gaza. Il diritto al ritorno, mai concesso, diventa un mantra politico e spirituale per generazioni.

Gli anni Cinquanta e Sessanta vedono Israele allinearsi con l’Occidente, mentre l’Unione Sovietica sostiene i regimi arabi. In questo scenario, la Palestina diventa terreno di scontro della Guerra Fredda. Le guerre del 1956, del 1967 e del 1973 ridisegnano i confini. Israele occupa Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est, le Alture del Golan, il Sinai. I palestinesi, privati di uno Stato, affidano la loro rappresentanza all’OLP di Yasser Arafat, che alterna diplomazia e lotta armata, speranza e radicalismo.

Nel frattempo, cresce la presenza israeliana nei territori occupati: colonie, muri, check-point, tutto sembra progettato per rendere impossibile la nascita di uno Stato palestinese. Gli arabi rispondono con la prima Intifada: una rivolta popolare, fatta di pietre e barricate, di scioperi e slogan. Nasce Hamas, alimentato dall’islamismo militante e deciso a lottare fino all’ultimo respiro.

Nel 1993, tutto pare cambiare. A Oslo, sotto lo sguardo speranzoso del mondo, Arafat e Rabin si stringono la mano. Si parla di pace, di confini, di riconoscimento reciproco. Ma è un sogno fragile. I coloni non si fermano. Hamas non depone le armi. Rabin viene ucciso da un ebreo estremista. E il sogno si frantuma.

Da allora, il conflitto è rimasto sospeso in un limbo tragico, fatto di negoziati abortiti, intifade, rappresaglie, bombardamenti, accuse e silenzi. Gerusalemme è ancora divisa, Gaza è sotto assedio, la Cisgiordania sotto occupazione. Due popoli continuano a vivere fianco a fianco, ma non insieme, separati da muri fisici e invisibili.

Questa lezione non cerca di offrire una soluzione, né pretende di giudicare. Cerca piuttosto di raccontare una storia complessa, dolorosa, urgente, nella quale ogni evento, ogni parola, ogni gesto ha un peso millenario.

Perché in questa terra – più che altrove – la memoria non passa. E il futuro non arriva.

giovedì 14 novembre 2024

7.2 - L’Europa divisa: dalla cortina di ferro al crollo del muro di Berlino (1945-1989)

 


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Era il 9 novembre 1989, e la notte cadeva su Berlino come ogni altra notte. Eppure, quella sera, qualcosa si spezzò nel silenzio del blocco orientale, come una diga che cede, come un nodo che si scioglie dopo anni di tensione trattenuta. Mentre i berlinesi dell’Est premevano ai varchi con un misto di timore e speranza, mentre le guardie di confine non sapevano più se obbedire o disobbedire, una crepa si apriva nel cuore d’Europa. E da lì sarebbe passato tutto: la gioia, la libertà, la confusione, la fine di un’epoca.

Ma per capire quel momento, bisogna tornare indietro. A Yalta, a Teheran, al giorno in cui Roosevelt, Churchill e Stalin si spartirono un continente come fosse un mazzo di carte. Bisogna tornare al 1945, alla bandiera rossa che sventola sul Reichstag, alla divisione della Germania, alle quattro zone, ai due blocchi, alle due ideologie che si guardano in cagnesco da un capo all’altro della cortina di ferro. Da Stettino a Trieste, come avrebbe detto Churchill, un sipario opaco cala sull’Europa, separando libertà e autoritarismo, democrazia e controllo, mercato e piano quinquennale.

Berlino è il simbolo perfetto di quella divisione. Una città mutilata, tagliata da un confine che è insieme geografico, politico, psicologico. Prima è solo un confine sottile, attraversabile, permeabile. Poi, nel 1961, diventa muro: filo spinato, cemento armato, torri di guardia, una striscia della morte sorvegliata da mitra e cani. È un muro che non separa due eserciti, ma un popolo da se stesso, una lingua dalla sua eco, una madre da suo figlio, un giovane dal suo futuro.

Eppure, anche i muri più solidi hanno fondamenta fragili. La DDR, come l’intero sistema sovietico, è un gigante dai piedi d’argilla: cresciuto sulla paura, ma incapace di reggere il confronto con il tempo. Le prime crepe arrivano da lontano: dalla Polonia di Solidarnosc, dall’Ungheria che taglia il filo spinato, dalla Cecoslovacchia che sogna una “rivoluzione di velluto”. E poi da Mosca, dove Gorbaciov, con le sue parole nuove – perestrojka, glasnost’ – tenta di salvare ciò che non si può più salvare. Le sue riforme sono come la brezza che precede il temporale: non lo evitano, lo annunciano.

Quando, per un errore di comunicazione, Schabowski annuncia la libertà di circolazione “con effetto immediato”, è come se il destino, stanco di aspettare, decidesse di agire in autonomia. I berlinesi si riversano ai posti di blocco. Nessuno spara. Nessuno arresta. Tutti guardano. E poi applaudono. E poi salgono sul muro. E lo abbattono, pezzo per pezzo, con martelli, picconi, mani nude.

Il mondo intero assiste. E mentre il cemento cade, cadono anche le certezze, le ideologie, i partiti unici, i piani quinquennali, le utopie del socialismo reale. Cade l’URSS. Cade il Patto di Varsavia. Cadono Ceausescu, Honecker, Husák. Inizia un’altra storia. O, forse, finisce l’ultima vera epopea politica del Novecento.

Ma ciò che segue non è solo luce. È anche smarrimento, disoccupazione, speculazione, shock economico, oligarchie nate sulle ceneri dello stato sociale. Uscire dal comunismo non significa solo guadagnare libertà: significa perdere certezze, sopportare l’inflazione, vedere le fabbriche chiudere, scoprire che la libertà è cosa fragile, esigente, persino costosa.

Eppure, il muro caduto resta una promessa. La promessa che nessuna prigione ideologica dura per sempre, che la storia può cambiare direzione anche nei luoghi dove sembrava immobile, che a volte bastano le gambe di un ragazzo che salta il filo spinato – come fece Conrad Schumann – per accendere la speranza di milioni.

Questa lezione racconta non solo un evento storico, ma una trasformazione profonda dell’anima europea. Perché quando crolla un muro, non c’è più un solo popolo che rinasce. Ce ne sono due. E con essi, un continente intero.