Ogni civiltà elabora una risposta condivisa a una domanda essenziale: quale posto occupa l’essere umano nel mondo e quale significato assume il tempo della sua esistenza. Queste risposte non sono mai soltanto individuali, ma si formano all’interno di una cornice culturale comune, che orienta il modo di pensare, di sentire e di rappresentare la realtà. Il Seicento è uno dei momenti storici in cui tale cornice entra in crisi in modo particolarmente evidente.
La comparsa e la diffusione di nuovi strumenti di osservazione e di misurazione – il cannocchiale e l’orologio meccanico – incidono profondamente sul rapporto dell’uomo con il cosmo e con il tempo. La scienza genera tecnologia, e questa tecnologia rende possibile uno sguardo prima impensabile: il cielo non appare più come uno spazio perfetto e immutabile, e il tempo non è più soltanto esperienza vissuta o ciclo naturale, ma diventa quantità misurabile, scomponibile, astratta. A loro volta, le nuove osservazioni incrinano le teorie tradizionali, aprendo una fase di ridefinizione del sapere e delle immagini del mondo.
Il Barocco è l’età della meraviglia, dello stupore per ciò che si rivela nuovo e inatteso. Ma è anche l’età dell’inquietudine. Gli strumenti che ampliano lo sguardo e promettono una conoscenza più profonda rivelano, al tempo stesso, la fragilità delle certezze ereditate. La precisione dell’orologio e la potenza del cannocchiale non conducono a una pacificazione dello sguardo, bensì a una nuova consapevolezza del limite.
Arte e letteratura registrano con intensità questa ambivalenza. Nei testi poetici, nelle allegorie pittoriche, nelle nature morte e nelle vanitas, gli strumenti del sapere convivono con i segni della caducità. L’orologio diventa emblema del tempo che consuma ogni cosa; il cannocchiale, simbolo di uno sguardo che osa spingersi oltre, ma che non può sottrarsi al rischio dell’illusione. Vanitas e memento mori non negano il progresso tecnico: ne svelano il rovescio, ricordando che la crescita del sapere non dissolve l’ombra del finire.
Il rapporto fra scienza e tecnica si configura così come un movimento circolare: gli strumenti rendono possibile nuove scoperte, e le scoperte generano strumenti sempre più raffinati, in un processo che ridefinisce continuamente il modo di pensare il tempo, lo spazio e la posizione dell’uomo nell’universo. Il mondo si fa più leggibile, ma anche più complesso; più misurabile, ma meno rassicurante.
Oggi, come allora, nuove macchine ridisegnano il nostro orizzonte simbolico. Robotica e intelligenza artificiale non sono soltanto dispositivi funzionali, ma strumenti che interrogano l’idea stessa di intelligenza, di tempo, di identità. Come nel Seicento, lo stupore per la potenza tecnica si accompagna a una sottile inquietudine. Ogni ingranaggio che si perfeziona, ogni sguardo che si spinge più lontano, ci costringe a chiederci chi siamo e che cosa stiamo diventando. E forse, come allora, non è tanto la risposta a definirci, quanto il modo in cui impariamo a porre di nuovo la domanda.
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