Una terra composita, ricca di voci e di popoli, dove si intrecciavano alfabeti, religioni, memorie, guerre e speranze. Sei repubbliche, due province autonome, tre religioni, quattro lingue, due alfabeti, un partito solo. Una costruzione fragile, tenuta in equilibrio dal carisma di un solo uomo: Josip Broz Tito. Ma anche le strutture più imponenti, se fondate su linee di faglia, prima o poi crollano.
Tutto comincia molto prima della fine. L’idea jugoslava nasce nel sangue, nei conflitti dell’età degli imperi, tra Vienna e Istanbul, tra Roma e Berlino. Si consolida con la guerra mondiale, si ricompone sotto la bandiera della resistenza antifascista, si plasma infine nel socialismo autogestito, né sovietico né capitalista, un’anomalia lucida che per qualche decennio riesce a funzionare.
Tito è tutto. Il leader partigiano che libera Belgrado senza l’aiuto diretto degli eserciti stranieri; l’alleato di Churchill e Roosevelt, ma anche il nemico di Stalin; il fondatore del Movimento dei Paesi non allineati; il padre di una patria multietnica e indisciplinata che lo venera come simbolo e garante della coesistenza. Finché lui c’è, la macchina funziona. Poi, il vuoto.
Alla sua morte, nel 1980, qualcosa si spezza. Le tensioni etniche che l’autorità carismatica aveva represso riemergono in superficie. Le riforme liberiste degli anni Ottanta, dettate dal Fondo Monetario Internazionale, precipitano milioni di persone nella povertà. La storia viene riscritta in chiave etnonazionalista, e i fantasmi del passato tornano ad armare le mani dei presenti.
Slobodan Milošević, il “Gorbaciov di Belgrado”, si presenta come difensore dei serbi ovunque essi si trovino. Ma la sua idea di Jugoslavia è diversa: non più un mosaico, ma una piramide con un solo vertice. Nel frattempo, gli altri popoli – croati, sloveni, bosgnacchi, kosovari – intravedono l’unica via d’uscita nella secessione. La Jugoslavia si disintegra tra referendum e cannoni.
Nel volgere di pochi anni, il cuore dei Balcani si trasforma in un inferno: Vukovar, Dubrovnik, Sarajevo, Srebrenica diventano nomi che non evocano solo città, ma simboli di assedi, massacri, stupri etnici, genocidi. La televisione trasmette l’orrore in diretta, giorno dopo giorno, come un reality dell’apocalisse.
Le potenze occidentali, inizialmente lente, poi più risolute, intervengono nel 1999 con la NATO. Belgrado viene bombardata. Milošević, il “macellaio dei Balcani”, finirà in carcere, ma senza che un vero processo arrivi mai a conclusione. L’ex Jugoslavia non esiste più: al suo posto, sette stati, ognuno con ferite aperte, memorie non pacificate, sogni incerti.
Eppure, nonostante tutto, i ponti si ricostruiscono: il Ponte di Mostar, abbattuto nel 1993, rinasce nel 2004 come simbolo di possibile riconciliazione. Le bandiere sono cambiate, ma le strade, le piazze, le canzoni, i cibi e i tratti del volto ricordano ancora a tutti che, un tempo, c’era una volta la Jugoslavia.