mercoledì 11 dicembre 2024

7.3 - Israeliani e Palestinesi: storia di una convivenza impossibile

 

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La Palestina – o Israele, a seconda di chi guarda – non è solo un luogo sulla mappa: è un nodo infuocato di identità collettive, di memorie incompatibili, di promesse infrante e di desideri assoluti. È la sintesi dolorosa di ciò che accade quando la religione, la nazione e la storia si fondono in una miscela esplosiva, in cui ogni pietra, ogni albero, ogni rovina antica diventa oggetto di contesa, di rivendicazione, di sangue.

Questa vicenda non comincia nel 1948, né con la prima Intifada. Affonda le radici in epoche remote, quando Pompeo Magno entrava a Gerusalemme, quando Tito radeva al suolo il Tempio e disperdeva il popolo ebraico nel mondo, dando avvio a una diaspora che sarebbe durata quasi duemila anni. Da allora, l’ebraismo ha custodito nel cuore un desiderio inestinguibile: il ritorno. Non un sogno astratto, ma un punto fermo della fede, pronunciato ogni anno durante la Pasqua: “L’anno prossimo a Gerusalemme”.

Nel frattempo, sulla stessa terra, altri popoli hanno abitato, pregato, costruito. I palestinesi, che oggi si sentono minacciati nella loro stessa esistenza, sono gli eredi di una presenza continua, mutevole ma tenace, nella quale si sono stratificati imperi, califfati, domini ottomani e amministrazioni britanniche.

Il Novecento segna un punto di svolta. Mentre l’antisemitismo europeo esplode nella sua forma più feroce con la Shoah, cresce l’urgenza, per il popolo ebraico, di avere uno Stato proprio. È in questa direzione che vanno le prime aliyot, le emigrazioni verso la Palestina, alimentate dal sionismo di Herzl e dalla visione socialista di Moses Hess. Ma lo stesso territorio è già abitato, e le terre fertili sono poche. Il conflitto è iscritto nella geografia stessa del luogo.

Nel 1917, la Dichiarazione Balfour promette agli ebrei un "focolare nazionale" in Palestina. Pochi anni prima, però, Londra aveva promesso agli arabi l’indipendenza in cambio della loro rivolta contro i turchi ottomani. Due promesse incompatibili, fatte da uno stesso impero, a due popoli diversi. Il risultato è un crescendo di tensioni, attacchi, rappresaglie, mentre le autorità del Mandato britannico tentano invano di mediare. La Shoah rende tutto ancora più drammatico: centinaia di migliaia di sopravvissuti cercano rifugio in Palestina, in una terra che ormai non è più solo un simbolo, ma una necessità vitale.

Nel 1947, l’ONU propone la spartizione del territorio. Gli ebrei accettano. Gli arabi no. Nel maggio 1948, nasce lo Stato di Israele. E, il giorno dopo, scoppia la guerra. La Lega Araba tenta l’invasione, ma Israele resiste, si espande, si consolida. La Nakba, la catastrofe, è per i palestinesi: oltre 700.000 profughi, villaggi abbandonati o distrutti, campi in Libano, Giordania, Cisgiordania, Gaza. Il diritto al ritorno, mai concesso, diventa un mantra politico e spirituale per generazioni.

Gli anni Cinquanta e Sessanta vedono Israele allinearsi con l’Occidente, mentre l’Unione Sovietica sostiene i regimi arabi. In questo scenario, la Palestina diventa terreno di scontro della Guerra Fredda. Le guerre del 1956, del 1967 e del 1973 ridisegnano i confini. Israele occupa Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est, le Alture del Golan, il Sinai. I palestinesi, privati di uno Stato, affidano la loro rappresentanza all’OLP di Yasser Arafat, che alterna diplomazia e lotta armata, speranza e radicalismo.

Nel frattempo, cresce la presenza israeliana nei territori occupati: colonie, muri, check-point, tutto sembra progettato per rendere impossibile la nascita di uno Stato palestinese. Gli arabi rispondono con la prima Intifada: una rivolta popolare, fatta di pietre e barricate, di scioperi e slogan. Nasce Hamas, alimentato dall’islamismo militante e deciso a lottare fino all’ultimo respiro.

Nel 1993, tutto pare cambiare. A Oslo, sotto lo sguardo speranzoso del mondo, Arafat e Rabin si stringono la mano. Si parla di pace, di confini, di riconoscimento reciproco. Ma è un sogno fragile. I coloni non si fermano. Hamas non depone le armi. Rabin viene ucciso da un ebreo estremista. E il sogno si frantuma.

Da allora, il conflitto è rimasto sospeso in un limbo tragico, fatto di negoziati abortiti, intifade, rappresaglie, bombardamenti, accuse e silenzi. Gerusalemme è ancora divisa, Gaza è sotto assedio, la Cisgiordania sotto occupazione. Due popoli continuano a vivere fianco a fianco, ma non insieme, separati da muri fisici e invisibili.

Questa lezione non cerca di offrire una soluzione, né pretende di giudicare. Cerca piuttosto di raccontare una storia complessa, dolorosa, urgente, nella quale ogni evento, ogni parola, ogni gesto ha un peso millenario.

Perché in questa terra – più che altrove – la memoria non passa. E il futuro non arriva.

giovedì 14 novembre 2024

7.2 - L’Europa divisa: dalla cortina di ferro al crollo del muro di Berlino (1945-1989)

 


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Era il 9 novembre 1989, e la notte cadeva su Berlino come ogni altra notte. Eppure, quella sera, qualcosa si spezzò nel silenzio del blocco orientale, come una diga che cede, come un nodo che si scioglie dopo anni di tensione trattenuta. Mentre i berlinesi dell’Est premevano ai varchi con un misto di timore e speranza, mentre le guardie di confine non sapevano più se obbedire o disobbedire, una crepa si apriva nel cuore d’Europa. E da lì sarebbe passato tutto: la gioia, la libertà, la confusione, la fine di un’epoca.

Ma per capire quel momento, bisogna tornare indietro. A Yalta, a Teheran, al giorno in cui Roosevelt, Churchill e Stalin si spartirono un continente come fosse un mazzo di carte. Bisogna tornare al 1945, alla bandiera rossa che sventola sul Reichstag, alla divisione della Germania, alle quattro zone, ai due blocchi, alle due ideologie che si guardano in cagnesco da un capo all’altro della cortina di ferro. Da Stettino a Trieste, come avrebbe detto Churchill, un sipario opaco cala sull’Europa, separando libertà e autoritarismo, democrazia e controllo, mercato e piano quinquennale.

Berlino è il simbolo perfetto di quella divisione. Una città mutilata, tagliata da un confine che è insieme geografico, politico, psicologico. Prima è solo un confine sottile, attraversabile, permeabile. Poi, nel 1961, diventa muro: filo spinato, cemento armato, torri di guardia, una striscia della morte sorvegliata da mitra e cani. È un muro che non separa due eserciti, ma un popolo da se stesso, una lingua dalla sua eco, una madre da suo figlio, un giovane dal suo futuro.

Eppure, anche i muri più solidi hanno fondamenta fragili. La DDR, come l’intero sistema sovietico, è un gigante dai piedi d’argilla: cresciuto sulla paura, ma incapace di reggere il confronto con il tempo. Le prime crepe arrivano da lontano: dalla Polonia di Solidarnosc, dall’Ungheria che taglia il filo spinato, dalla Cecoslovacchia che sogna una “rivoluzione di velluto”. E poi da Mosca, dove Gorbaciov, con le sue parole nuove – perestrojka, glasnost’ – tenta di salvare ciò che non si può più salvare. Le sue riforme sono come la brezza che precede il temporale: non lo evitano, lo annunciano.

Quando, per un errore di comunicazione, Schabowski annuncia la libertà di circolazione “con effetto immediato”, è come se il destino, stanco di aspettare, decidesse di agire in autonomia. I berlinesi si riversano ai posti di blocco. Nessuno spara. Nessuno arresta. Tutti guardano. E poi applaudono. E poi salgono sul muro. E lo abbattono, pezzo per pezzo, con martelli, picconi, mani nude.

Il mondo intero assiste. E mentre il cemento cade, cadono anche le certezze, le ideologie, i partiti unici, i piani quinquennali, le utopie del socialismo reale. Cade l’URSS. Cade il Patto di Varsavia. Cadono Ceausescu, Honecker, Husák. Inizia un’altra storia. O, forse, finisce l’ultima vera epopea politica del Novecento.

Ma ciò che segue non è solo luce. È anche smarrimento, disoccupazione, speculazione, shock economico, oligarchie nate sulle ceneri dello stato sociale. Uscire dal comunismo non significa solo guadagnare libertà: significa perdere certezze, sopportare l’inflazione, vedere le fabbriche chiudere, scoprire che la libertà è cosa fragile, esigente, persino costosa.

Eppure, il muro caduto resta una promessa. La promessa che nessuna prigione ideologica dura per sempre, che la storia può cambiare direzione anche nei luoghi dove sembrava immobile, che a volte bastano le gambe di un ragazzo che salta il filo spinato – come fece Conrad Schumann – per accendere la speranza di milioni.

Questa lezione racconta non solo un evento storico, ma una trasformazione profonda dell’anima europea. Perché quando crolla un muro, non c’è più un solo popolo che rinasce. Ce ne sono due. E con essi, un continente intero.

giovedì 17 ottobre 2024

7.1 - La conquista dello spazio: Kennedy sfida Krusciov

 

C’è stato un tempo in cui gli uomini scrutavano il cielo non per interrogare gli dei, ma per sfidarsi tra loro. Un tempo in cui ogni stella artificiale lanciata in orbita era una dichiarazione di potenza, ogni razzo un dito puntato contro il nemico, ogni orbita compiuta un anello di fumo tracciato nell’atmosfera della Guerra Fredda.

Tutto comincia nel silenzio del deserto. È il 16 luglio 1945. Nel New Mexico, il Trinity Test squarcia l’alba del mondo nuovo: l’umanità ha imparato a replicare il sole, ma non sa ancora se sarà capace di sopravvivere alla sua stessa luce. L’atomica diventa subito arma geopolitica, simbolo di forza, oggetto di timore. In pochi mesi, la distruzione di Hiroshima e Nagasaki non solo conclude una guerra, ma inaugura un'era: quella del terrore simmetrico, del mondo diviso in due, dell’equilibrio fondato sulla paura.

Gli Stati Uniti credono di detenere un’esclusiva. Ma nel 1949, l’URSS risponde: anche Mosca ha l’atomica. Comincia la corsa agli armamenti, sempre più veloci, sempre più potenti, sempre più insensati. Edward Teller progetta la bomba all’idrogeno, capace di mille Hiroshima, e la prova su un atollo dimenticato del Pacifico. Gli uomini costruiscono cupole di cemento per contenere le scorie, spostano popolazioni, contaminano mari, e fingono che tutto questo sia progresso.

Ma la guerra delle bombe non basta. I missili che possono portarle ovunque si rivelano anche mezzi per esplorare lo spazio. Così, mentre si studiano traiettorie balistiche, nasce un’idea che sembra uscita da un poema epico: arrivare oltre il cielo.

Il 4 ottobre 1957 lo Sputnik 1 entra in orbita. Un piccolo satellite di alluminio, ma dal peso immenso: il mondo capisce che i Sovietici sono davanti. Segue lo Sputnik 2, con a bordo una cagna, Laika, che muore in poche ore, sola e arrostita da un calore non previsto. Eppure il segnale è chiaro: l’uomo è prossimo a varcare la soglia dello spazio.

Gli Stati Uniti rispondono con fatica. Il Vanguard TV-3 esplode al lancio. A risollevare le sorti americane viene chiamato un uomo controverso, Wernher von Braun, ingegnere nazista, ufficiale delle SS, geniale progettista delle V2 che seminavano terrore in Inghilterra. Convertito alla causa americana, diventerà il padre del programma spaziale statunitense.

Nel 1961, l’URSS brucia ancora una volta il primato: Yurij Gagarin, figlio del popolo, operaio, pilota, è il primo uomo a orbitare attorno alla Terra. Il suo sorriso conquista il mondo, e le sue parole – “da quassù la Terra è bellissima, senza confini” – sembrano smentire la logica stessa della Guerra Fredda.

Kennedy, giovane presidente americano, non può restare indietro. Lancia una sfida che ha il sapore dell’epopea: portare un uomo sulla Luna e riportarlo indietro, prima che il decennio sia finito. Non è solo una sfida tecnica, ma una battaglia simbolica per la supremazia morale, culturale, politica.

Intanto, sul pianeta, si accumulano i missili, si perfezionano le testate multiple, si costruiscono bunker sotterranei, si redigono piani per l’apocalisse. Il mondo vive sospeso tra il sogno della Luna e l’incubo del fungo atomico. Le due immagini convivono, si sfidano, si rincorrono.

E poi arriva quel giorno. 20 luglio 1969. Armstrong poggia il piede sulla Luna. Il mondo trattiene il fiato. La voce gracchiante pronuncia parole che diventano leggenda: “un piccolo passo per un uomo, un balzo gigantesco per l’umanità”. Eppure, dietro il gesto, c’è tutto: la competizione, la paura, la speranza, l’ambizione, l’intelligenza, l’infanzia del futuro.

Dopo, verranno le stazioni spaziali, le missioni congiunte, gli scambi di informazioni tra nemici che cominciano a conoscersi. La corsa allo spazio non è mai stata solo scienza. È stata una sfida di civiltà, un’arena sospesa tra cielo e abisso, tra desiderio di sapere e bisogno di prevalere.

E forse, proprio lì, tra stelle e silenzi, l’uomo ha scoperto che può scegliere se costruire razzi o cattedrali, testate o telescopi, minacce o visioni. Per questo vale ancora la pena raccontare quella corsa. Perché ci insegna che la nostra storia non è scritta nelle orbite, ma nelle scelte.

Anno accademico 2024/25 - Storie della Guerra fredda

 

  1. La conquista dello spazio: Kennedy sfida Krusciov - Giovedì 17 ottobre 2024

  2. L’Europa divisa: dalla cortina di ferro al crollo del muro di Berlino - Giovedì 14 novembre 2024

  3. Israeliani e palestinesi: storia di una convivenza impossibile - Giovedì 12 dicembre 2024

  4. Corsa per Trieste: dalle foibe al trattato di Osimo - Giovedì 16 gennaio 2025

  5. L’Italia s'è desta: ricostruzione e miracolo economico - Giovedì 20 febbraio 2025

  6. Cuba 1962: quando la guerra atomica sembrò inevitabile - Giovedì 13 marzo 2025

  7. Anni di piombo: nel tempo del terrore e dei cattivi maestri - Giovedì 17 aprile 2025

  8. C’era una volta la Jugoslavia: orrore in diretta TV - Giovedì 15 maggio 2025

giovedì 16 maggio 2024

6.8 - A passo allegro verso la catastrofe: come ci siamo caduti. Di nuovo.


 

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C’è stato un tempo in cui l’Europa si illudeva che la guerra del 1918 fosse l’ultima. Un tempo in cui le democrazie firmavano trattati convinte di scrivere la pace, e invece tracciavano la mappa del rancore. In quella Germania umiliata e spezzata, si muoveva un uomo qualunque, uno tra milioni. Ma anche uno solo può cambiare la storia.

In questa lezione seguiamo la parabola vertiginosa di Adolf Hitler, dalla culla alla cancelleria, dai fallimenti come artista alla trincea, dalle birrerie di Monaco alla conquista del potere. Assistiamo alla nascita del nazionalsocialismo, alla costruzione di un partito che promette riscatto e semina violenza, alla creazione delle SA, delle SS, dei simboli e delle parole d’ordine che avrebbero avvelenato un intero popolo.

Ripercorriamo l’illusione di Weimar, la crisi del ’29, i roghi dei libri e del Parlamento, la presa del potere “per via legale” che annienta ogni libertà. E poi, il riarmo, le annessioni, le parate, la propaganda, il culto della razza, fino alla Notte dei Cristalli e ai patti che aprono la strada alla guerra.

Tutto questo accade nel cuore della civiltà europea. Con il consenso, con l’indifferenza, con la paura. La domanda non è solo “come è stato possibile”, ma perché nessuno ha fermato l’abisso mentre ancora si poteva.

Questa non è solo una storia tedesca. È una storia che ci riguarda. Perché ci mostra quanto sia facile credere in chi promette grandezza, e quanto sia difficile accorgersi che ci sta conducendo, passo dopo passo, verso la catastrofe.

lunedì 22 aprile 2024

6.7 - Processo alla storia: a chi dobbiamo il ventennio fascista?

 

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C’è stato un tempo in cui il fascismo non era ancora una dittatura, ma un’ipotesi. Una fra le tante. Non un destino, ma una possibilità che, giorno dopo giorno, è diventata realtà. Un tempo in cui la parola “ordine” faceva brillare gli occhi, la parola “rivoluzione” faceva tremare le stanze, e la parola “libertà” sembrava un lusso per tempi migliori.

In questa lezione indossiamo la toga della storia, non per assolvere o condannare, ma per capire. Perché il fascismo non cala dall’alto, non è un colpo di fulmine, né un’invasione. È piuttosto una costruzione lenta, collettiva, ambigua. A chi dobbiamo il ventennio fascista? Chi ha davvero aperto la porta a Mussolini? E chi, pur potendola richiudere, ha scelto di non farlo?

Sette imputati sfilano davanti a noi: la Grande Guerra con le sue promesse mancate e le sue ferite aperte; la paura del comunismo, che paralizza il giudizio; gli atavici nodi dell’Italia postunitaria, mai sciolti davvero; la borghesia agraria e industriale, che preferisce la frusta alla contrattazione; la politica parlamentare, troppo cieca, troppo lenta; un re, Vittorio Emanuele III, che sceglie la prudenza, e con essa l’irrilevanza morale. E infine la cultura del tempo, che smette di interrogare e comincia ad applaudire.

E poi c’è lui: Benito Mussolini. Non ancora Duce, non ancora dittatore. Solo un uomo ambizioso, astuto, instabile, cresciuto nel fango delle periferie romagnole e nell’ardore del socialismo rivoluzionario. Un uomo che, molto prima del potere, ha capito che conta più la forza di una parola che la verità di un’idea.

In questo viaggio torniamo là, tra il 1919 e il 1922. Ascoltiamo le voci delle piazze e dei giornali, leggiamo i manifesti, seguiamo le marce, guardiamo le fiamme degli assalti. Ma soprattutto ci fermiamo. E ci chiediamo: poteva andare diversamente?

La storia non si scrive con i se. Ma si può – e si deve – leggerla con attenzione, per riconoscere i segnali, per non ripetere le disattenzioni. Perché il fascismo, prima di essere regime, è stato attesa, complicità, rassegnazione. E solo dopo, potere.